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Impara l'arte

La VOCE giugno 2023

Ai tempi del Nuovo Testamento Tessalonica era sotto il controllo dell’Impero romano, ma come città libera godeva di privilegi particolari. Tessalonica è l’odierna Salonicco in Macedonia. 

L’apostolo Paolo portò il vangelo in quella regione, motivo per cui fu anche perseguitato. I primi convertiti, quindi, ricevettero il messaggio in mezzo a molte difficoltà, e divennero presto un vero esempio da imitare in tutta la zona circostante. 

Un piccolo gruppo che, se ci confrontiamo con le sue caratteristiche, mette in luce la nostra identità di credenti del XXI secolo.

Spicca la prima caratteristica: una reputazione stellare

“Noi ringraziamo sempre Dio per voi tutti, nominandovi nelle nostre preghiere, ricordandoci continuamente, davanti al nostro Dio e Padre, dell’opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo” (1 Tessalonicesi 1:2,3).

Dalle parole di Paolo si evince che “l’opera della loro fede”, “le fatiche del loro amore” e “la costanza della speranza nel Signore Gesù Cristo” erano le tre qualità rilevanti dei primi credenti tessalonicesi, che li rendeva visibilmente “cristiani”.

Nonostante Paolo fosse rimasto in quella città solo qualche settimana, la loro vita era radicalmente cambiata dall’incontro con la verità del vangelo.

Da subito la loro fede in Cristo fu vera e operante. In altre parole, conoscere Cristo aveva prodotto un comportamento cambiato nella loro vita. 

Uno spunto di riflessione: se qualcuno dovesse descrivere la nostra cristianità di oggi, cosa direbbe? Penserebbe che siamo persone morali? Religiose?

Le opere della fede 

“Le opere della loro fede” che Paolo menziona, non servivano per guadagnarsi la salvezza o qualche merito davanti a Dio, perché la salvezza è per grazia e non per opere (Efesini 2:8,9). “Nessuna possibilità di vantarsi” come Paolo aveva insegnato ai credenti di Roma (Romani 3:21-28). In effetti, i tessalonicesi avevano creduto alle parole di Gesù, e perciò si comportavano di conseguenza. La loro fede era un dono di Dio che cresceva in relazione alla loro conoscenza e ubbidienza alla sua parola.

La fede, nella Bibbia, non è descritta come una cosa mistica, ma motore di azioni che vengono da un modo di pensare rinnovato, e i suoi effetti possono essere visti dagli altri. 

Diverse volte il Signore Gesù aveva dovuto rimproverare i discepoli per il loro comportamento sbagliato: “Gente di poca fede… Dov’è la vostra fede?... Non avete ancora fede?” Perciò, è la nostra fede a determinare il nostro comportamento.

Giacomo lo spiega così: “Così è della fede; se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano” (Giacomo 2:17-19).

Chi dice di credere, ma non è sottomesso a Dio dà piuttosto prova della sua incredulità. Dimostra di essere incosciente e ribelle, ma anche beffardo perché si prende gioco di Dio.

Le fatiche dell’amore 

I credenti di Tessalonica, avevano un amore che non si fermava davanti alla fatica e ai tempi difficili che stavano vivendo. 

L’espressione “le fatiche del loro amore” descrive un modo di amarsi senza riserve, fino a essere esausti. 

Oggi troppi credenti sembrano soffrire della sindrome da stanchezza cronica. Tra la famiglia, il lavoro, lo sport, i corsi e le mete che vogliono raggiungere sono svuotati di tempo e energie, indispensabili per dedicarsi agli altri credenti. 

Si sono dimenticati che la vera fede si traduce in amore pratico verso coloro che sono di Cristo. 

Le parole di Giovanni sono un campanello d’allarme: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. ... Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Giovanni 4:7-11,19).

I credenti di Tessalonica erano pronti a faticare per amarsi, perché avevano creduto e conosciuto l’amore di Gesù. 

Ancora oggi amare gli altri è difficile. Richiede fatica e sacrificio. Eppure, la fama del loro amore si era sparsa in tutta la Macedonia, perché avevano capito che essere cristiani significa amare, e amare ha un costo. 

Che i nostri vicini di casa, i colleghi e tutti i nostri conoscenti sappiano che siamo credenti in Cristo, non soltanto perché parliamo di lui, ma soprattutto per le nostre vite piene di amore pratico e infaticabile verso gli altri!

Rincorrere obiettivi terreni ci consumerà senza portare frutto, ma se siamo pronti a dare il nostro tempo e le nostre risorse per il bene dei fratelli in Cristo, quello sì che porterà un frutto per l’eternità.

La costanza della speranza

Infine, i tessalonicesi erano conosciuti per la loro viva attesa del ritorno di Gesù: “la costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo”.

La parola “costanza” evidenzia le difficoltà dell’attesa. Pietro ne parla dicendo: 

Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile. Essa è conservata in cielo per voi, che siete custoditi dalla potenza di Dio mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi.
Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell’oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo. 
Benché non lo abbiate visto, voi lo amate; credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate di gioia ineffabile e gloriosa, ottenendo il fine della vostra fede: la salvezza delle anime. 
—1 Pietro 1:3-9 (l’enfasi aggiunta, qui e di seguito, è mia).

Non possiamo negare, ignorare o sminuire le difficoltà che Dio permette nella nostra vita, ma dobbiamo affrontarle con pazienza, ricordando le sue promesse. Questo dimostrerà che la nostra fede è vera.

Seconda caratteristica: l’insegnamento sano

Paolo scrive: “Infatti il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti, sapete come ci siamo comportati fra voi, per il vostro bene. Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Infatti, da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne” (1Tessalonicesi 1:5-8). 

La verità del vangelo aveva trasformato i tessalonicesi. Era penetrata nei loro cuori cambiando il loro modo di pensare e di comportarsi.

Avevano ascoltato il vangelo predicato con parole giuste, approvate da Dio, con la potenza dello Spirito Santo attraverso uomini che vivevano secondo quello che insegnavano, perché volevano piacere a Dio e non agli uomini (1 Tessalonicesi 2:2-4).

Il predicatore fedele alle Scritture non manipola il messaggio per i propri interessi, ma si assicura di parlare da parte di Dio. Non predica le proprie opinioni, né cerca di far colpo sull’uditorio con discorsi appetibili, ma si attiene all’esposizione del testo biblico. In questo modo lo Spirito Santo opera nelle vite degli uditori, servendosi della verità eterna rivelata nelle Scritture e predicata dal pulpito.

Parlando ai credenti di Corinto, Paolo esprime lo stesso concetto: “Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore; la mia parola e la mia predicazione non consistettero in discorsi persuasivi di sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1 Corinzi 2:3-5).

Paolo era coerente con quello che insegnava. Annunciava il vangelo con precisione, e lo Spirito Santo si è servito di questa scrupolosità per trasformare lui per primo, e poi il cuore dei credenti di Tessalonica. 

Nonostante le sofferenze a causa delle persecuzioni, i tessalonicesi si erano sottomessi all’insegnamento ricevuto. Infatti Paolo scrive: “Per questa ragione anche noi ringraziamo sempre Dio: perché quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete” (1 Tessalonicesi 2:13).

Il fatto che alcuni credenti non cambino mai e non ci sia una trasformazione visibile della loro vita, sarà forse dovuto anche alla predicazione poco biblica e “annacquata” delle loro chiese? O perché, magari, hanno sottovalutato l’importanza di ascoltare messaggi sani per poter crescere? 

Solo la parola di Dio opera efficacemente nei credenti – non è l’intrattenimento né altre attività pseudo spirituali – ed è fondamentale che la mente e il cuore siano esposti a essa. Ignorare il ruolo essenziale dell’insegnamento biblico vanifica lo scopo e la funzione della chiesa.

Terza caratteristica: una conversione reale

Le chiese di oggi sono piene di persone che simpatizzano con vari aspetti del “cristianesimo” senza essersi mai convertite a Gesù. Possono anche essere assidue e partecipare a tante attività, ma non conoscono Cristo personalmente.

Come si fa a riconoscere una vera conversione? Come dovremmo presentare l’evangelo affinché a chi ci ascolta sia chiaro come si diventa cristiani?

Per rispondere, esaminiamo proprio ciò che è successo ai tessalonicesi. 

La notizia della loro conversione si era sparsa per tutta la Macedonia e l’Acaia, dice Paolo, e aggiunge: “Essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta fra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e veroe per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente” (1 Tessalonicesi 1:9,10).

La parola “conversione” descrive un cambiamento radicale a 180 gradi: se prima si andava in una direzione adesso si va nella direzione opposta. È una parola che ricorre spesso nel libro degli Atti, dove si narra come è nata la chiesa, e come delle persone di diverse etnie abbiano abbandonato le false religioni per convertirsi al Dio vero ed eterno.

Non si può diventare cristiani senza una vera conversione che sia accompagnata dal ravvedimento. È ciò che hanno predicato Giovanni Battista, il Signore Gesù e i suoi apostoli. Senza la conversione e senza un ravvedimento il vangelo non è una buona notizia.

Solo un cuore che riconosce le proprie colpe davanti alla giustizia di Dio, e chiede “Cosa devo fare per essere salvato?” è pronto per ricevere la buona notizia della salvezza in Cristo. 

I tessalonicesi si erano convertiti dagli idoli a Dio. Avevano riconosciuto l’inutilità e l’inganno della loro religione e si sono rifugiati in Cristo per essere salvati. 

Se prima si ritenevano delle brave persone, moralmente buone, ora comprendevano che non esistono opere sufficientemente buone per ottenere il favore di Dio, e che non c’è altro mezzo per arrivare a lui se non attraverso il ravvedimento e la totale resa. 

“Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso»” (Romani 10:9-11).

La conversione autentica è un cambiamento radicale nel modo di ragionare, di credere e di scegliere che influenza tutta la vita. I tessalonicesi erano un esempio anche in questo perché si erano convertiti per servire il Dio vivente e vero.

Nel greco originale “servire” è la forma verbale della parola “schiavo”. Adesso erano legati a un nuovo padrone, un Signore a cui dovevano ubbidienza.

È un concetto che trova tanta resistenza anche tra molti di quelli che si definiscono evangelici. Si preferisce l’idea di aver scelto noi di credere, di aver deciso noi di seguire Cristo, e di servirlo quando ci fa comodo, ma non  quella di essere schiavi.

Le Scritture affermano chiaramente che Dio ci ha eletti e ci ha scelti. Ci ha chiamati per appartenere totalmente a lui per obbedirgli in ogni cosa. 

Pietro scrive: Comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno; sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vostro vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia” (1 Pietro 1:17b-19).

E Paolo ammonisce: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:19,20).

In realtà non siamo mai stati senza un padrone. Ogni essere umano è schiavo di sé stesso, delle proprie concupiscenze (1 Giovanni 2:16), e di conseguenza schiavo del diavolo (Efesini 2:1-3). Dopo la conversione, però, abbiamo un nuovo padrone: Cristo!

Se sei un credente e ti rendi conto di aver vissuto fino a ora per te stesso, per la tua famiglia, per il lavoro o per le tue mete umane, ravvediti! Riconosci che hai bisogno di sottomettere ogni cosa che riguarda la tua vita alla signoria di Cristo. “Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2:17).

Un’attesa paziente ma sicura 

I veri cristiani comprendono che questo mondo non è altro che un passaggio, e che c’è una realtà molto più grande e concreta che ci attende dopo la vita. Per questo hanno priorità, prospettive e mete molto diverse da chi non conosce Cristo.

Un giorno Dio porrà fine alla follia degli uomini e spargerà la sua giusta ira sui peccatori. Quest’ira tocca ogni uomo che non si sottomette alla signoria di Cristo. I tessalonicesi lo avevano saputo da Paolo, e si erano convertiti a Gesù, perciò Paolo gli aveva scritto che “sono liberati dall’ira imminente”.

“Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Giovanni 3:36).

È una tragica realtà che moltissime persone si illudono pensando sinceramente di essere cristiane quando non lo sono affatto. Un giorno alcuni si presenteranno davanti a Dio dicendo di essere “cristiani”, ma la sua risposta sarà categorica: “Io non vi ho mai conosciuti!”

Ognuno di noi deve a se stesso un attento esame, fatto col cuore, alla luce della Parola di Dio, per capire quanto siamo attaccati a Cristo, quanto sia vera la nostra fede, e quanto siamo pronti a ubbidire a Dio. 

Poniamoci l’obiettivo di imitare i tessalonicesi, perché Gesù non è alla ricerca di fans, ma di discepoli! 

Davide Standridge

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La VOCE aprile 2022

 

Negli anni ho visitato molte chiese e ho conosciuto credenti in diverse parti del mondo. Entrati un po’ più in confidenza, alcuni mi hanno confessato il proprio risentimento verso la loro assemblea. La cosa strana, a prescindere se la comunità che frequentavano fosse grande o piccola, progressista o tradizionalista, l’accusa era sempre la stessa: in questa chiesa non c’è amore! 

A volte era una sola persona a essere arrabbiata, ma altre volte lo erano intere famiglie o gruppi coalizzati contro qualcuno o qualcosa che non andava nella chiesa. 

Uno sdegno e un disprezzo che nel tempo hanno consumato queste persone, portandole al punto di scagliare le loro pesanti accuse e andar via dalla chiesa sbattendo la porta. Non hanno mai dato agli accusati possibilità di difesa: processo terminato e verdetto sentenziato! E alla fine hanno tagliato ogni contatto con i fratelli. In molti casi hanno agito senza un confronto aperto con le guide della chiesa, ritenute le prime colpevoli. 

Chi lascia la propria comunità in questo modo non è quasi mai disposto a mettersi in discussione né si chiede quanto amore abbia sparso lui nella vita di chiesa. E ciò è molto triste.

È facile accusare gli altri della mancanza d’amore nei nostri confronti ma, in fin dei conti, sappiamo davvero cosa significa amarsi nella chiesa? 

Come posso misurare l’amore dei fratelli per me? Centra forse il bisogno di sentirmi considerato e importante, oppure voglio solo che si facciano le cose come voglio io?

Gesù ha detto: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

È un bel trampolino di lancio questo versetto! Sta dicendo, senza mezzi termini, che il mondo ostile che ci giudica, ci riconoscerà discepoli di Cristo dal modo in cui ci amiamo tra fratelli. 

Ma le parole di Gesù dovrebbero far riflettere anche noi aiutandoci a esaminarci: credo in Gesù? Sono un suo discepolo? Frequento una chiesa di discepoli? Qual è la mia caratteristica più evidente? E quella della mia chiesa?

L’apostolo Giovanni, che nel suo Vangelo è presentato come il discepolo che Gesù amava, ha scritto sotto ispirazione dello Spirito Santo uno dei versetti più belli sull’amore di Dio: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16). 

Sono parole che hanno attirato migliaia di persone a Dio, e sono tanto care ai credenti. 

D’altro canto, Giovanni ha anche scritto: “Chi dice: «Io l’ho conosciuto», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo. Da questo conosciamo che siamo in lui: chi dice di rimanere in lui, deve camminare com’egli camminò (1 Giovanni 2:4-6).

Un discepolo deve camminare come ha camminato il suo maestro Gesù! 

La chiesa locale dovrebbe essere formata da individui che credono col cuore alla Parola di Dio e sono imitatori genuini di Cristo. Ma non è sempre così. Non tutti quelli che si professano cristiani sono salvati, e non tutti quelli che dicono di essersi convertiti vivono in sottomissione alla signoria di Cristo. 

A volte la colpa è della predicazione poco chiara sul fatto che Gesù è il Signore e che noi credenti siamo suoi servi (leggi schiavi). Messaggi superficiali tendono a produrre più simpatizzanti che conversioni. Ma un messaggio che non predica pentimento, ubbidienza e consacrazione non è un messaggio biblico. 

Se tutti i credenti camminassero come Gesù, le chiese sarebbero il fulcro dell’amore sulla terra. Ogni chiesa locale sarebbe un’oasi d’amore, totalmente diversa da tutto quello che il mondo offre.

A complicare tutto è il fatto che ogni credente si trova a un punto diverso di maturità, sia spirituale che caratteriale. Non siamo quindi sempre amabili, portiamo ancora con noi mentalità e modi di fare che non piacciono a Dio e che dovremmo abbandonare. Siamo spesso orgogliosi, permalosi, egocentrici e poco amorevoli. È un problema che riguarda tutti, e che non si risolve in un istante. 

Da un certo punto di vista, dire che c’è poco amore nelle chiese è vero, dato che sono formate da persone propense al peccato. Ma non possiamo usarlo come un pretesto per continuare nella nostra carnalità.

Dio ci ha destinati a essere simili al suo Figlio anche nei nostri affetti, nelle ambizioni e negli atteggiamenti. 

L’apostolo Paolo ci ricorda com’è l’amore di Cristo che noi dobbiamo imitare:

“Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall’ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione” (Romani 5:6-11).

Gesù non cercava persone facili da amare. Noi, forse, proviamo empatia e pietà davanti a scene di sofferenza, dove vediamo vittime o persone che hanno bisogno di aiuto. Ma il suo era un amore mirato, era verso persone cattive, indegne, incapaci di fare il bene. Quelle che avrebbero reagito male a ogni suo gesto e parola tradendolo e rifiutando l’amore vero e compassionevole di Dio.

Qualsiasi giustificazione alla nostra mancanza d’amore nella chiesa è invalidata dall’obbligo che abbiamo di imitare l’amore di Gesù. 

Non abbiamo alternative, perché le parole di Cristo sono chiare e perentorie:

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dare la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio. Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga; affinché tutto quello che chiederete al Padre, nel mio nome, egli ve lo dia. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Giovanni 15:12-17).

Gesù ci ha scelti e ci ha amati quando non eravamo amabili. Ci chiama suoi amici e ci comanda di amarci gli uni gli altri. Amare Gesù implica che dobbiamo ubbidire a questo suo comando: amarci gli uni gli altri.

A questo punto dovremmo chiederci se siamo veramente pronti a ubbidire a Gesù in tutto.

La risposta per me non è complicata, ma è difficile da applicare quando penso al comando “devo amare i fratelli”! 

Non posso sbattere la porta e andarmene con aria altezzosa come giudice degli altri credenti. Anzi, se lo faccio, do prova della mia stessa incapacità di amare, il ché mi squalifica automaticamente dal giudizio veritiero sullo stato spirituale della mia chiesa.

Siamo amici di Gesù, ovvero suoi discepoli se facciamo le cose che Lui ci comanda e il suo comando è di amare i fratelli nella fede. Non ne possiamo fare a meno. 

Ma cosa significa in pratica amare i credenti? 

Vuol dire salutarli con piacere e baciarli quando si entra in sala? Oggi il Covid l’ha reso impossibile. 

Vuol dire invitarci a casa a turno? I due anni di pandemia ci hanno disabituati anche a quello! A essere onesti, già da prima non si vedeva molta ospitalità tra le famiglie, schiacciate dagli impegni e dalle responsabilità fuori e dentro casa — e le porte di alcune case sono rimaste ermeticamente chiuse. 

Ognuno ha una sua idea su come l’amore debba essere espresso in una chiesa, ma quello che conta, però, è la spiegazione che dà Dio su come fare.

“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. L’amore non verrà mai meno” (1 Corinzi 13:4-8).

Questa è la definizione di questo amore, ed è importante notare che riguarda esclusivamente il nostro atteggiamento verso le persone davanti a noi. Non importa come sono, conta piuttosto il modo in cui le avviciniamo, cosa pensiamo di loro, il modo in cui camminiamo accanto a loro. 

Questo passo non è la nostra cartina tornasole per giudicare l’amore degli altri e promuoverli o bocciarli, ma ci serve per valutare il nostro amore, i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Effettivamente il problema grande non sono gli altri, ma siamo noi!

Quante volte abbiamo sbattuto la porta dentro di noi, nel nostro intimo, senza uscire dalla sala.

Delusi dall’atteggiamento nei nostri confronti, pensiamo di “amare” gli altri più di quanto loro amino noi. Ci mostriamo cordiali, ma lo facciamo a denti stretti e per pura formalità “evangelica”. 

Il Signore ci chiama a ravvederci e a esaminare i nostri cuori. 

Il problema più grande risiede proprio negli atteggiamenti, e non nelle azioni. Quando impariamo ad amare come Cristo ci ama, anche le nostre azioni saranno pure.

Questo non vuol dire che amare i credenti diventerà facile. E può essere pericoloso ignorare questa dura realtà. Se amare non fosse difficile non servirebbero tanti versetti che ne parlano. 

La difficoltà persiste perché siamo limitati e perché non tutti siamo amabili.

Paolo ci ricorda: “Rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Filippesi 2:2-4).

Scrive ancora agli Efesini: “Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Alla chiesa di Colosse dice ancora: “Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi. Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione” (Colossesi 3:12-14).

È evidente quanto dobbiamo ancora lavorare con l’aiuto di Dio su noi stessi. 

Il nostro carattere deve essere trasformato, le reazioni carnali devono sparire e devono essere rimpiazzate da quelle bibliche, che piacciono a Dio e lo onorano, che riflettono il nostro cammino nelle orme di Cristo.

Dio deve sviluppare in noi tutte quelle virtù che Paolo elenca nell’ultimo passo citato, perché spesso le persone, già difficili da amare, a loro volta non ci amano come dovrebbero. Che bisogno ci sarebbe di essere pazienti, misericordiosi, benevolenti e pronti a perdonare se non esistessero credenti difficili, se nessuno ci facesse dei torti?

Prendiamo, per esempio, il perdono. A tutti piace essere perdonati. Ogni volta che confessiamo i nostri peccati a Dio ci aspettiamo che Lui ci perdoni. Ci aspettiamo di essere perdonati anche per le offese che non ricordiamo e di cui non abbiamo coscienza, perché Gesù è morto per tutti i nostri peccati, passati, presenti e futuri. Ci aspettiamo di essere perdonati persino dei peccati che continuiamo a ripetere, quelli che in qualche modo abbiamo accettato come facenti parte del nostro carattere di cui non possiamo fare nulla. Da Dio ci aspettiamo un perdono continuo, ma quando tocca a noi…

Eppure, perdonare è indispensabile se si vuole avere un rapporto duraturo con qualcuno. Lo stesso vale per le nostre relazioni in chiesa che vanno protette.

Ma c’è anche un altro elemento fondamentale senza il quale non si può essere perfetti nell’amore. Lo troviamo nelle parole di Giovanni: “ma chi osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente completo” (1 Giovanni 2:5).

Non puoi essere un discepolo di Cristo senza conoscere la Parola di Dio e senza desiderare di metterla in pratica. Amare la chiesa comincia con l’ascoltare e osservare la Parola di Dio, perché le sacre Scritture producono nel vero discepolo un profondo desiderio di assomigliare a Cristo.

L’apostolo Paolo ha testimoniato: “Ma ciò che per me era un guadagno, l’ho considerato come un danno, a causa di Cristo. Anzi, a dire il vero, ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione delle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte” (Filippesi 3:7-10).

Per il vero credente diventare come Cristo non è un vago desiderio irraggiungibile, ma una priorità assoluta. Solo chi è trasformato dalla Parola di Dio può veramente amare, può veramente essere usato da Dio.

È giusto farsi delle domande a questo punto:

  • Leggo la Parola di Dio regolarmente, e cerco di capire sempre meglio quale sia la volontà di Dio per me?
  • Per me è una priorità frequentare le riunioni della chiesa dove la Parola di Dio è insegnata accuratamente? Forse ci sono delle chiese che dovrebbero essere lasciate non per mancanza d’amore, ma per mancanza di un insegnamento sano!
  • Cosa faccio per ricordarmi quello che ascolto o leggo nella Parola di Dio per metterla in pratica? La lettera di Giacomo avverte che chi ascolta soltanto, senza che qualcosa cambi in lui, è un illuso. Illuso anche riguardo a cosa vuol dire amare ed essere amati.
  • Leggo dei buoni libri che mi aiutano nella mia crescita spirituale?

La mia capacità di amare è legata proporzionalmente alla mia disciplina nel diventare sempre più simile a Cristo: più tendo a questo obiettivo, più sarò capace di amare.

La Bibbia parla di fare del bene a tutti, ma specialmente a coloro che sono della famiglia di Dio. La chiesa è formata da persone molto diverse fra loro, adulti, bambini, anziani, persone singole, adolescenti, di diverse culture, etnie e anche di diverse possibilità economiche. Tutti questi individui, che normalmente nel mondo non avrebbero nulla in comune, sono unti soprannaturalmente da Dio stesso. Tutti i credenti fanno parte di un solo corpo, hanno un solo Spirito, hanno una sola mèta, un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo e un solo Dio e Padre (Efesini 4:4,5).

Amarsi nella chiesa vuol dire prima di tutto curarsi spiritualmente a vicenda. La Parola di Dio afferma che lo Spirito Santo dà a tutti i credenti nella chiesa uno o più doni per la crescita spirituale degli altri (1 Corinzi 12 e Romani 12). Non solo Dio dà dei doni, ma ha già preparato le buone opere per ogni credente. In altre parole, il modo per eccellenza di amare i credenti nella chiesa sta nell’usare i doni che Dio ha dato per il beneficio e la crescita spirituale dei credenti. 

A volte nelle chiese i credenti affermano di non conoscere i loro doni, il che fa capire che non li stanno usando. Altri si sono convinti che se hanno un dono è solo per la loro crescita personale. Ma Pietro afferma sotto ispirazione di Dio: “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (1 Pietro 4:10-11).

Quando nelle chiese non si vede l’amore di Dio all’opera, non sarà forse perché i credenti sono troppo pigri nell’usare i doni che il Signore gli ha dato per la cura reciproca?

Una chiesa sana è formata da credenti veri che crescono nella conoscenza della Parola di Dio, che sono assidui nel diventare sempre più simili a Cristo, aiutandosi a vicenda. E quando ci sono problemi si affrettano a metterli a posto per non avere nulla che possa minare l’unità del corpo di Cristo.

In conclusione, la prossima volta che cominci a pensare che nella tua chiesa non c’è amore, prima di tutto esamina la tua vita. Stai amando bene, con lo stesso zelo e atteggiamento con cui Gesù ha amato te? Sei pronto a soffrire come ha sofferto lui per te? Probabilmente dovrai rivalutare le tue reazioni.

La tua chiesa dimostra un amore per la parola di Dio nell’insegnarla e applicarla con accuratezza? Se la risposta è sì, fidati dell’opera di Dio nella vita dei fratelli. 

Davide Standridge

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La VOCE novembre 2021

La nuova governatrice dello stato di New York, Kathy Hochul, in un suo discorso su coronavirus e vaccino, ha detto ai suoi sostenitori: 

“Indosso tutto il tempo la mia collana di persona vaccinata per affermare che ho fatto il vaccino. E voi tutti – lo so che siete vaccinati, voi siete quelli intelligenti – sapete che ci sono altri là fuori che non danno ascolto a Dio. Non fanno ciò che Dio vuole, e voi lo sapete e li conoscete. 
“Ho bisogno di voi, ho bisogno che voi siate i miei discepoli, che andiate a parlare [del vaccino], e che diciate che lo dobbiamo l’uno all’altro. Noi ci amiamo a vicenda. Gesù ci ha insegnato ad amarci gli uni gli altri. E in che altro modo possiamo mostrare questo amore se non prendendoci cura gli uni degli altri, al punto di dire: «Per favore, fatti vaccinare perché ti amo e voglio che tu viva!»?”

Tutt’altra cosa il governatore della Florida, Ron de Santis, che si è scagliato contro ogni imposizione sul vaccino, dicendo che sancirà multe fino a 5.000 dollari contro qualsiasi impresa e altra entità lavorativa, governativa e non, che impone il vaccino ai suoi impiegati.

La governatrice Hochul è cresciuta in una famiglia cattolica ed è a favore dell’aborto, mentre Ron de Santis, cattolico anche lui, si schiera invece contro l’aborto. Due persone di “fede”, ma con opinioni diametralmente opposte.

Questi due esempi dimostrano che anche dall’altra parte dell’oceano si acuiscono posizioni divergenti sul Covid e sui vaccini che, portate all’estremo, possono sfociare in violenza. 

L’opinione pubblica è fortemente divisa su questo argomento, ma lo sono anche le chiese e i credenti. 

Cosa sta succedendo? Come abbiamo fatto a farci trascinare in litigi e divisioni? E cosa dobbiamo fare per uscirne fuori?

LA MASCHERINA COPRE LA BOCCA MA NON FERMA LA LINGUA

“SIGNORE, poni una guardia davanti alla mia bocca, sorveglia l’uscio delle mie labbra.” Salmo 141:3

Davide, che ha scritto questo salmo, era consapevole che senza l’aiuto di Dio, dalla sua bocca potevano facilmente uscire parole e frasi che avrebbero fatto del male e offeso Dio. 

Anche Giacomo avverte del pericolo di parlare in modo avventato che porta conseguenze disastrose. Nella sua lettera dice che “la lingua è un piccolo membro, eppure si vanta di grandi cose. Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità. Posta com’è fra le nostre membra, contamina tutto il corpo e, infiammata dalla geenna, dà fuoco al ciclo della vita” (3:5,6).

Adesso che le opinioni sul coronavirus stanno infiammando gli animi di tutti, perfino i credenti stanno permettendo alle loro lingue di incendiare e rovinare rapporti coi fratelli in fede, con giudizi reciproci, provocando addirittura spaccature nelle chiese.

In effetti, la pandemia ha palesato quanto siano fragili l’unità e l’amore fra i credenti nelle chiese evangeliche.

Non è stato il coronavirus ad aver introdotto i dissensi nelle chiese, che purtroppo ci sono da sempre, ha solo contribuito a riportare alla luce problemi non affrontati e irrisolti. È triste dover ammettere che i litigi nelle chiese non sono una novità, e temo che non cesseranno finché saremo su questa terra.

DISTINTAMENTE DISCEPOLI 

Molti sono pronti a difendere le loro posizioni nelle controversie, citando versetti biblici come se fossero armi. 

Anche se alcune divisioni sono legittime, perché basate su chiare indicazioni delle Scritture, molte altre non lo sono affatto, anche perché è raro che una spaccatura sia dettata dall’amore. Le scissioni sono piuttosto eventi senza espressioni di affetto.

Ma l’amore nella chiesa non è un’opzione, come un’ideale da ricercare “quando possibile”. Al contrario, è un elemento fondamentale per la vita in comune dei veri cristiani.

Proprio perché Gesù lo sapeva ha dichiarato: “Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri (Giovanni 13:34,35). 

Quando l’amore è manifestato e vissuto in modo pratico nella chiesa locale, si ha la dimostrazione che i veri cristiani sono anche veri discepoli. Non professano la fede soltanto a parole, ma la vivono in pratica nei rapporti. 

“Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:18-20).

Il piano di Dio è che chi crede in Cristo sia anche suo discepolo, e che, mettendo in pratica la sua Parola, evangelizzi altre persone invitando anche loro a diventare discepoli di Gesù. 

Ma non tutti quelli che fanno una professione di fede diventano automaticamente discepoli. Forse bisognerebbe spiegare bene che chiamarsi cristiano implica l’essere un discepolo di Cristo. Magari parliamo della salvezza senza menzionare che è strettamente legata al concetto di discepolato.

Fare di qualcuno un discepolo di Cristo vuol dire “insegnargli a osservare tutte quante le cose che Cristo ha comandate”. Il Signore ne ha comandate tante che fanno sì che la vita cristiana sia un cammino vero e proprio, ossia un progredire durante tutta la vita. Ma cosa dimostra che un cristiano è anche vero discepolo? L’amore fra i credenti ne è la prova. 

Non si tratta di un amore fatto di parole vuote, ma di fatti e gesti concreti che lo esprimono e lo fanno vivere. Ma troppo spesso le nostre parole tradiscono quello che cova effettivamente il nostro cuore, e così demoliamo con la nostra bocca rapporti che abbiamo costruito in anni.

Parliamo di evangelizzazione, altra prova di amore. Se nemmeno i bollettini dei morti per Covid, quotidianamente aggiornati, ci spingono a riflettere sulla realtà della morte, mi domando che cosa mai potrà farlo allora. 

Non si tratta solo di numeri. I morti sono morti davvero, e quelli che non erano diventati figli di Dio credendo in Cristo Gesù sono realmente andati all’inferno, indipendentemente dalla causa della loro morte. Davanti a tutto questo, il vero credente è impossibile che rimanga insensibile. 

La comunione tra i credenti è una testimonianza importante quanto la nostra vita privata. Per questo Gesù ha detto: “Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: che siano tutti uno; e come tu, o Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Giovanni 17:20,21).

L’unità tra i veri cristiani è un mezzo che Dio ha stabilito per invitare le persone nel mondo a credere che Gesù è il Figlio di Dio, e che è venuto per salvare coloro che credono in lui.

L’unità nella chiesa e l’amore tra veri credenti riguardano te personalmente, e cominciano da te. 

Sono l’espressione visibile che Dio ci ha salvati. Ecco le parole dell’Apostolo Pietro chiare e solenni: 

“E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l’opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno; sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della fondazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio.
“Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore, perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio” (1 Pietro 1:17-23).

Avere conosciuto Cristo, essere quindi stati acquistati da lui e rigenerati, produce in ogni vero credente un intenso amore sincero, non forzato. L’ascolto della Parola di Dio e la sua applicazione pratica alla nostra vita dovrebbe spingerci ad amare gli altri proprio in questo modo. 

Ma il nostro amore deve anche essere messo alla prova, perché l’unità tra i credenti è minata dal fatto che siamo fallibili e difficili da amare. Proprio per questo motivo Pietro scrive: “Soprattutto, abbiate amore intenso gli uni per gli altri, perché l’amore copre una gran quantità di peccati” (1 Pietro 4:8). 

Sapevi che la parola “intenso” nella lingua originale significa amare “con la mano tesa”? Una mano tesa invita fratelli e sorelle ad avvicinarsi a te. 

Ami con le braccia tese o conserte? 
Il tuo braccio è teso per accogliere o per tenere lontano? 
Ami in modo discriminatorio, dimenticando che se non fosse per Cristo saremmo tutti odiosi e difficili da amare (Tito 3:1-7)?

I dissidi fra credenti e fra chiese per opinioni diverse sul Covid stanno influenzando anche i veri credenti a vivere con il braccio teso pieno di giudizio, in aperto conflitto gli uni contro gli altri. 
È possibile che abbiamo dimenticato cosa ci unisca e cosa Dio abbia fatto in noi?

L’ORIGINE DELL’UNITÀ

Da dove proviene l’unità di cui abbiamo parlato, e cosa si aspetta Dio da noi? 

L’Apostolo Paolo lo spiega alla chiesa di Efeso così: 

“Io dunque, il prigioniero del Signore, vi esorto a comportarvi in modo degno della vocazione che vi è stata rivolta, con ogni umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi gli uni gli altri con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello Spirito con il vincolo della pace. Vi è un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti” (Efesini 4:1-6).

Leggendo questo passo alcune verità basilari devono rimanere impresse nella nostra mente.

Prima di tutto, con il nostro comportamento possiamo onorare Cristo e ciò che ha fatto per noi, oppure possiamo comportarci in modo indegno e irrispettoso verso di lui. Un discepolo, ovviamente, desidera solo seguire il Maestro, ed evitare qualunque cosa possa diffamarlo. 

Non siamo degni della salvezza (“vocazione”) e non lo saremo mai, perché più volte la Parola di Dio ribadisce che non possiamo meritare il favore di Dio. La salvezza è un dono (Efesini 2:1-10). È poco ma sicuro, però, che possiamo essere incoerenti col nostro comportamento rispetto al nostro rapporto con Dio.

Una seconda verità, sottintesa nelle parole di Paolo, è che il credente non è risparmiato dalle difficoltà. Lui scriveva dalla prigione, infatti da quando si era convertito a Cristo la sua vita era stata segnata da momenti di grande sofferenza, spesso a causa della sua testimonianza e dell’ostilità dei capi religiosi e delle autorità politiche del suo tempo. 

Alcuni pensano che l’assenza di problemi sia una conferma che Dio approvi il nostro comportamento, ma non è così! L’unico modo per valutare e capire senza errori se Dio sia soddisfatto del nostro comportamento oppure no, è confrontarci con la sua Parola.

La terza verità è che siamo chiamati a conservare l’unità, e non a produrla. Non possiamo creare l’unità, ma possiamo rovinarla e siamo anche bravi nel farlo!

Umiltà, mansuetudine, pazienza e sopportazione amorevole sono gli atteggiamenti necessari nella vita di coloro che non vogliono essere un ostacolo all’unità nella chiesa.

La mancanza di umiltà non è solo un problema tra un credente e l’altro, ma anche tra il credente e Dio. 
Dio resiste ai superbi, quelli che si confrontano in prima persona con sé stessi. L’orgoglio dell’uomo, il voler diventare come Dio, è stato il motivo principale della sua caduta e continua a essere il suo tallone d’Achille. 

L’orgoglio ci spinge a credere che le nostre opinioni siano le migliori, e che debbano prevalere nei confronti degli altri. 

L’orgoglio distrugge qualsiasi possibilità di unità nella chiesa. 

Per orgoglio lasciamo le nostre convinzioni soggettive fermentare incontrollate dentro di noi fino a che, in un attimo, traboccano producendo astio e disprezzo quando ci confrontiamo con gli altri. 

Avere idee diverse e fare valutazioni differenti è normale, ma con la mansuetudine è possibile prevenire le reazioni sbagliate. Quando manca la mansuetudine, che è la forza sotto controllo, le reazioni rischiano di essere peccaminose, portando anche divisione. 

La pazienza è la capacità di non reagire quando si è sotto stress. 
Ci vuole pazienza nelle situazioni che non ci piacciono, davanti a opinioni o comportamenti che ci urtano e che ci sembrano sbagliati. 

Il fatto che Paolo menzioni la pazienza, dimostra che ci saranno sempre motivi per potenziali conflitti. Cosa sceglieremo di fare in quei momenti? Sceglieremo la sopportazione pacifica? Fino a che punto siamo pronti a spingerci per proteggere la pace? 

Giacomo scrive: 

“Chi fra voi è saggio e intelligente? Mostri con la buona condotta le sue opere compiute con mansuetudine e saggezza.
Ma se avete nel vostro cuore amara gelosia e spirito di contesa, non vi vantate e non mentite contro la verità. Questa non è la saggezza che scende dall’alto; ma è terrena, animale e diabolica. Infatti dove c’è invidia e contesa, c’è disordine e ogni cattiva azione. 
La saggezza che viene dall’alto, anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (Giacomo 3:13-18).

Pensi di poter difendere il tono aspro delle tue parole e legittimare l’atteggiamento con cui le dici, solamente citando le Scritture? 
Tendi a giustificare la durezza dei termini che usi ostentando la tua spiritualità? 

È difficile conciliare le parole di Giacomo con l’atteggiamento intollerante sempre più comune tra le persone.

PRESERVARE L’UNITÀ 

L’unità dei credenti non nasce per sforzi, patti e alleanze umane. È Dio che la produce tra i suoi figli. Nessun credente è capace di crearla. Il Signore stesso la stabilisce in modo sovrannaturale, in un modo inimmaginabile per l’uomo. 

Dio ha già compiuto delle azioni per il vero cristiano che lo hanno unito realmente a tutti coloro che Egli ha salvato nei secoli, in tutto il mondo (Efesini 2:11-18).

I veri cristiani del 2021 sono uniti da un vincolo sovrannaturale a tutti i cristiani del primo secolo. E sono uniti anche ai credenti dell’anno 500 e del 1500. Sono uniti perché Dio li ha uniti.

Questa unità continua a esistere attraverso tutte le epoche, e si estende anche geograficamente, arrivando a ogni credente ovunque nel mondo. Noi che siamo in Italia siamo uniti ai nostri fratelli islandesi, i credenti francesi sono uniti con i credenti brasiliani, come i fratelli giapponesi sono uniti ai fratelli canadesi e quelli americani con quelli afgani. Uniti di fatto!

Ma attenzione! Dato che non richiede nessuno sforzo particolare mantenere l’unità con chi non ho mai visto e non conosco (non può mica pestarmi i piedi né i miei modi possono offenderlo!) serve una prova del nove.

Per questo l’unità deve manifestarsi nella chiesa locale, dove chiunque potrebbe dire e fare cose che mi irritano, avere convinzioni diverse dalle mie, educare i figli in modo diverso da me… 

Per non parlare del fatto che a volte veniamo da culture diverse, forse qualcuno parla troppo o troppo poco, c’è chi è puntuale mentre io fatico ad arrivare in orario alle riunioni... C’è chi serve con gioia e chi schiva qualsiasi responsabilità. Forse si cantano i canti che ci piacciono o si preferiscono gli inni che ci addormentano, c’è chi prega a lungo e chi non prega in pubblico… 

L’unità è messa sotto pressione e provata proprio nella comunità!

I PARAMETRI DELL’UNITÀ

Un corpo, uno Spirito, una speranza, un Signore, una fede, un battesimo, un Dio e Padre. 
Sette realtà singolari che solo un vero cristiano può avere. 

Dio non ci ha chiamato a unirci con tutte le persone religiose, morali o sincere. Vuole piuttosto che ci impegniamo a preservare l’unità con tutti coloro che Lui sovranamente ha deciso di unire a noi in un solo corpo.

Solo i veri cristiani fanno parte del corpo di Cristo, e noi abbiamo la responsabilità di curarli e accettare tutti senza reputarci superiori o considerarli inutili. Questo Dio vuole da noi.

Lo Spirito Santo ha convinto loro come ha fatto con noi di peccato, di giustizia e di giudizio, e continua a camminare accanto a loro nel processo di santificazione. 

Tutti i veri cristiani trascorreranno certamente l’eternità con noi, quindi sarà meglio che impariamo ad andare d’accordo già da ora. 

Ogni vero credente ha un solo Signore: appartiene a Gesù Cristo, è suo schiavo e suo servitore. Come noi, anche lui deve rispondere delle sue azioni direttamente a Cristo. 

La chiesa è un gruppo esclusivo perché c’è solo una fede che permettere di entrarvi, ed è la fede in Gesù Cristo. 

C’è un solo vangelo che salva, un solo mediatore fra Dio e gli uomini. Gesù è il Signore e Salvatore di ogni vero cristiano. 

C’è un solo battesimo biblico che esprime visibilmente quello che Dio ha fatto interiormente nei suoi figli, ed è il battesimo per immersione che ci accomuna a Cristo: siamo morti al peccato, rinati come nuove creature, desideriamo camminare in santità, e Dio è il nostro Padre perché ci ha fatti rinascere quando abbiamo creduto in Cristo Gesù. Egli è sovrano e attento alle nostre vite.

Sono realtà che non possiamo contraffare né produrre per noi stessi o per un’altra persona. Possiamo solo pregare che Dio lo faccia.

PROTETTORI DELL’UNITÀ

Tu e io abbiamo il compito importante di proteggere l’unità nella chiesa prevenendo le spaccature, vaccino o non vaccino, mascherine o non mascherine. 

Per quanto le nostre opinioni possano essere ragionate e radicate, la responsabilità che abbiamo gli uni verso gli altri è più importante. 

Nessuno si aspettava una pandemia come il coronavirus. Nessuno di noi la poteva immaginare né aveva mai vissuto prima un evento di tale portata. 

Ma è anche proprio in vista di tempi come questi, quando la chiesa è messa sotto pressione da eventi politici o catastrofici, che Dio ha stabilito delle guide in ogni chiesa con il compito di pascere il gregge, che è difficile da guidare. Lo devono fare con l’atteggiamento giusto, con attenzione e sottomissione al Signore.

Le istruzioni molto pratiche di Paolo a  Timoteo valgono ancora: “Evita inoltre le dispute stolte e insensate, sapendo che generano contese. Il servo del Signore non deve litigare, ma deve essere mite con tutti, capace di insegnare, paziente” (2 Timoteo 2:23,24).

Piangiamo per il nostro peccato di permettere o provocare divisioni! Piangiamo perché le moltitudini muoiono senza Cristo. Piangiamo se nelle nostre chiese non c’è amore e unità. 

Ma se invece nella tua chiesa l’amore e l’unità regnano, allora ringrazia Dio, e sii pronto e sveglio per proteggerla contro qualsiasi nemico voglia minarla.

Comportiamoci da figli di Dio!

– D.S.

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La VOCE febbraio 2021

Mi hanno fatto un regalo. 
Non metto un punto esclamativo perché, mentre lo scartavo tutto felice, ho riconosciuto subito quel logo gialloblu, e il mio sorriso si è pietrificato in una mezza smorfia imbarazzata. 

Speravo fossero le polpette svedesi; quelle almeno non si devono montare…

Mi rende nervoso dover montare i prodotti di quella Casa, semplicemente perché, dopo aver assemblato con tanta fatica il mio acquisto, non vorrei ancora una volta ritrovarmi con qualche pezzo in più che non ho idea di dove mettere. 

Anche quando mi tocca aggiustare qualcosa ho sempre una punta di apprensione per lo stesso motivo: smonti, ripari, rimonti e ti ritrovi in giro quel fatidico pezzo in più! 
Allora ti chiedi: “Era così importante o ho creato qualcosa di nuovo?!” 
Se poi non funziona, allora poco male, tanto non funzionava neanche prima!

Non so se anche tu hai notato che nelle chiese certe volte ci sono dei pezzi in più, quelle persone che per qualche motivo sono difficili da collocare, ma che non sembra perché vengono a tutte le riunioni. 

Dopo tanto tempo non si sono ancora ben inserite. 

Cosa possiamo fare noi, se questa difficoltà le fa sentire escluse?

Membri di un corpo particolare

Un passo della Bibbia in cui si parla di questo, in Efesini 4:16, dice che “Da [Cristo] tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare se stesso nell’amore.”

Il corpo di cui parla è proprio la chiesa, ossia l’insieme dei credenti. L’apostolo Paolo la descrive in questo modo: 

Per la grazia che mi è stata concessa, dico quindi a ciascuno di voi che non abbia di sé un concetto più alto di quello che deve avere, ma abbia di sé un concetto sobrio, secondo la misura di fede che Dio ha assegnata a ciascuno. 
Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e tutte le membra non hanno una medesima funzione, così noi, che siamo molti, siamo un solo corpo in Cristo, e, individualmente, siamo membra l’uno dell’altro. 
Avendo pertanto doni differenti secondo la grazia che ci è stata concessa, se abbiamo dono di profezia, profetizziamo conformemente alla fede; se di ministero, attendiamo al ministero; se d’insegnamento, all’insegnare; se di esortazione, all’esortare; chi dà, dia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le faccia con gioia. –Romani 12:3-8

È evidente che la chiesa è formata da persone tutte diverse fra loro, ma proprio sulla base di questa diversità il Signore gli dà dei doni spirituali e un ruolo specifico che ha preparato per loro. 
Ognuno dovrà trovare lo spazio per mettere al servizio degli altri ciò che è, e quello che può fare. 

Le parti del corpo (i credenti) devono fare attenzione a non inorgoglirsi e a mantenere un atteggiamento sobrio. Sono chiamati da Dio a svolgere bene i loro compiti, servendo gli altri con gioia. E nessuno di loro è messo lì a caso o è inutile. Dio dà a tutti un ruolo importante e impegnativo!

Paolo scrive: 

Poiché, come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo. 
Infatti, noi tutti siamo stati battezzati in un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito. Infatti il corpo non si compone di un membro solo, ma di molte membra. 
Se il piede dicesse: «Siccome io non sono mano, non sono del corpo», non per questo non sarebbe del corpo. 
Se l’orecchio dicesse: «Siccome io non sono occhio, non sono del corpo», non per questo non sarebbe del corpo. 
Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? 
Ma ora Dio ha collocato ciascun membro nel corpo, come ha voluto. Se tutte le membra fossero un unico membro, dove sarebbe il corpo? 
Ci sono dunque molte membra, ma c’è un unico corpo; l’occhio non può dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; né il capo può dire ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 
Al contrario, le membra del corpo che sembrano essere più deboli, sono invece necessarie; e quelle parti del corpo che stimiamo essere le meno onorevoli, le circondiamo di maggior onore; le nostre parti indecorose sono trattate con maggior decoro, mentre le parti nostre decorose non ne hanno bisogno; ma Dio ha formato il corpo in modo da dare maggior onore alla parte che ne mancava, perché non ci fosse divisione nel corpo, ma le membra avessero la medesima cura le une per le altre. 
Se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui; se un membro è onorato, tutte le membra ne gioiscono con lui. 
Ora voi siete il corpo di Cristo e membra di esso, ciascuno per parte sua. –1 Corinzi 12:12-27

Gesù ha affermato che lui stesso edifica la chiesa. Perché è sua.
Con attenta e minuziosa precisione colloca ogni persona nel posto giusto, per il bene di lei e di quelli che le sono stati messi accanto.

Infatti nel passo di Corinzi si evidenzia che ogni membro partecipa attivamente alla cura delle altre parti del corpo. Se un membro soffre gli altri soffrono con lui, se uno è onorato anche gli altri partecipano all’onore. Ciò che vive uno non si può scindere dall’altro. Dio ha deciso che così deve funzionare la sua chiesa.

Perciò quando non onoriamo un altro membro della chiesa, stiamo venendo meno alla nostra responsabilità. E questo produrrà inevitabilmente divisione.

Se sei un credente, hai capito qual è il tuo ruolo? 

Ma a prescindere da questo, cosa stai facendo in pratica per curare gli altri? Sei del tipo che quando arriva porta più unità o genera divisione?
Le tue parole verso l’altro, sono efficaci nell’accogliere o fanno sentire rifiutati? 
Credi di avere un ruolo marginale o hai capito quanto sei importante per Dio? 

Non ci troviamo nella nostra chiesa per puro caso, ma siamo fondamentali, qualsiasi cosa facciamo o non facciamo.

Sbilenco

C’è da dire però che la chiesa è un corpo strano: è formato da malati! Questo perché Cristo non è venuto per i sani bensì per i malati, i peccatori, e con la salvezza, attraverso la rigenerazione, egli guarisce ogni persona dalla sua condizione di peccato. 
Così la radice del problema è risolta. 

Ma è pur vero che ognuno continua a portarsi dietro gli strascichi della sua “malattia”. In fin dei conti siamo tutti persone “rotte” che Dio deve aggiustare, e certe riparazioni richiedono tempo, a volte anche tutta la vita. 

La Bibbia però ci rassicura sul fatto che Dio continua a lavorare con attenzione nella vita di ogni credente, con un progetto ben preciso, dei risultati che ha già in mente e... con l’amore di Padre.

Il lavoro di trasformazione che il Signore fa nei credenti, non va alla stessa velocità per tutti, quindi nella chiesa ci sono diversi gradi di maturità. 

Alcuni per esempio capiscono subito come servire Dio e cosa fare, altri al contrario si sentono sempre inadeguati e incapaci di fare qualsiasi cosa, e si tengono in disparte. Altri invece si sentono già arrivati, aspirando a quello per cui ancora non sono pronti. 

La chiesa è un corpo complesso, ma è il posto che Dio ha prestabilito dove si realizza la crescita dei veri credenti, quelli che desiderano piacere a Dio. 

Scoprire il nostro ruolo, anche se non facile, è necessario.

A volte in una chiesa succede come con i mobili da assemblare: ci ritroviamo in mano qualche “pezzo” che sembrerebbe superfluo perché non sappiamo bene dove mettere. 

Ci sono i “pezzi” più complicati, gli adolescenti per esempio, i single un po’ avanti negli anni, quelli che hanno il coniuge non credente, i divorziati con figli, gli anziani con tutti i loro acciacchi, le vedove, i vedovi… Tutti quelli che non sono automaticamente collocabili nella chiesa a volte vengono trascurati.

Non è raro che il credente stesso, pieno di buona volontà, trovi il proprio posto nel servizio cristiano. Ad alcuni viene facile, ma questo non deve mai spingerci a criticare quelli che non si inseriscono con la stessa facilità. 

Paolo scrive che quando un membro soffre tutto il corpo ne risente. 

Le membra che, per un motivo o per un altro, non si inseriscono nel loro posto nel corpo, non fanno male solo a sé stesse ma a tutto l’organismo. 

È qualcosa che crea sofferenza e diminuisce il vigore, la forza e il benessere di tutto il corpo.

Pensiamoci un momento: che cosa ho fatto per rendere più facile l’inserimento dei fratelli in fede nella mia chiesa? Sono di aiuto o di ostacolo in questo? Quanto sono consapevole del peso che può avere il mio incoraggiamento verso le persone?

Credere che sia solo compito dei responsabili è un grave errore. Tutti i passi che abbiamo citato mettono su tutto il corpo, nella sua interezza, la responsabilità di accogliere, curare e servire gli altri.

Né carne né pesce 

L’adolescenza è quell’età in cui cominciano a farsi sentire le tante pressioni dall’esterno, e spesso è difficile per i genitori capire come aiutare i ragazzi. 

In questa fase della crescita molti cominciano a lasciare la chiesa. E qualunque sia la causa, dovrebbe essere anche un problema nostro, perché abbiamo tutti il dovere di fare in modo che si inseriscano nella chiesa, con un ruolo che li faccia sentire utili, che li responsabilizzi e che sia di supporto al servizio. 

Potremmo iniziare da ciò che sanno fare meglio. Per esempio la tecnologia per gli adolescenti di oggi è pane quotidiano. Ma ci sono tante cose in cui possono aiutare, basa stimolarli e usare l’ingegno. 

Curare la vita spirituale di un adolescente ha la sua difficoltà perché la loro personalità si sta formando ancora, il corpo cambia, tra gli amici ricevono stimoli opposti a quelli spirituali, sono scostanti, si sentono incompresi e per questo non si aprono. Diciamolo: è complicato relazionarsi con loro e ci vuole tanto tempo, pazienza e originalità.

Ecco che può arrivare il problema: per gli adolescenti è facile lasciare il corpo, e il corpo non fa fatica a lasciarli andare! 

Non possono e non devono essere ignorati, né trattati da bambini perché immaturi. Piuttosto devono essere aiutati a maturare. 

I genitori credenti nella chiesa devono trovare validi alleati per curare i loro figli adolescenti. Sia i figli che i genitori hanno bisogno di ricevere l’aiuto adatto, capire il ruolo che Dio gli ha dato, e anche il posto dove poter sviluppare i propri doni per il bene di tutti. 

Affinché questo accada, servono fratelli e sorelle che siano pronti ad investire tempo e sforzi per prepararli a servire bene. Ovvio che questo richiede un lavoro difficile, e tanto amore.

Della terra di nessuno

Gli adolescenti crescono e diventano i single. Alcuni pensano che il matrimonio sia un segno di maturità, e che quelli che non si sposano rimangono in qualche modo “nella terra di nessuno”. Ovviamente non è così. Un anello al dito non è garanzia di una persona matura. 

Da una parte i non sposati dovrebbero essere il gruppo che si inserisce più facilmente nel corpo-chiesa. Paolo incoraggiava i single a rimanere in quella condizione, perché è quella in cui si ha più tempo per servire. 

Molti di loro servono nella chiesa con serietà e zelo, ma spesso non si inseriscono facilmente. Portano avanti le loro responsabilità, ma possono vivere la vita di chiesa in grande solitudine. 

Alcuni non hanno la famiglia credente o vivono lontani da casa. Potrebbero sentirsi soli e non dirlo, perché sarebbe un segno di debolezza che non vogliono far vedere. 

Non tutti soffrono la solitudine, anzi hanno bisogno di più tempo per sé stessi. Ma essendo liberi e abituati a vivere da soli, può facilmente accadere che rimangano troppo concentrati su loro stessi. 

La chiesa deve assolutamente usufruire del loro servizio cristiano, ma deve essere anche la loro famiglia, dove trovare calore, accoglienza, condivisione, “cibo”. 

E se qualche volta declinano un invito a partecipare a qualche attività, attenzione a non dirgli: “Tanto tu hai più tempo!” solo perché non hanno figli e non sono sposati. A volte fanno anche di più di chi ha responsabilità familiari.

In Italia ci si sposa sempre meno, perciò nelle nostre chiese ce ne sono di single, e saranno sempre più numerosi. Bisogna essere consapevoli che sono un dono per la chiesa, ma anche una nostra responsabilità. Devono trovare protezione e cura per la loro crescita spirituale, per il confronto, per la comunione e un posto dove la loro tendenza a isolarsi eccessivamente sia combattuta per un giusto equilibrio.

I single spirituali

Ci sono persone sposate che sono single nella fede. 

Nelle nostre chiese abbiamo credenti il cui coniuge non lo è. Non è difficile intuire che vivono difficoltà, perché in una certa misura sono ostacolati nel loro cammino cristiano. La realtà spirituale è un aspetto della loro vita di coppia che non è condiviso. 

Anche quelli che hanno più libertà di vivere secondo la loro fede devono comunque conciliare la vita di famiglia e la vita di chiesa. 

Essendo anche loro una parte vitale del corpo di Cristo, la chiesa, Dio li ha equipaggiati come gli altri con suoi doni spirituali, e come tutti gli altri hanno un ruolo da svolgere. 

Il loro campo di missione primario è la famiglia. Trovare comprensione e sostegno dai fratelli, li aiuterà a saper conciliare le proprie responsabilità come credenti con quelle tra le mura domestiche. 

I due ruoli potrebbero andare in conflitto, perciò i fratelli e le sorelle più maturi devono essere un punto di riferimento per consigliarli e guidarli nel loro cammino per niente facile. 

Attenzione: anche se superfluo vorrei però ricordare che in questo gli uomini devono camminare accanto agli uomini, e le donne accanto alle donne. 

Nel nostro paese, fondamentalmente cattolico, “i single nella fede” sono numerosi, e hanno bisogno di trovare il servizio adatto ai loro doni, compatibile con la loro situazione familiare. I modi ci sono per aiutarli, ma anche qui c’è bisogno di ingegno, attenzione, tempo e dare fiducia. 

Strappi e rammendi

Un gruppo crescente e difficile sono i divorziati e i separati. 
Da alcuni anni questa categoria di credenti è sempre più numerosa. 

Nelle nostre chiese, di solito piccole, si fanno tante attività dirette a tutti: ai bambini e ai giovani, alle persone anziane, alle donne, alla cura delle coppie. Ma bisogna ammettere con dispiacere che è difficile curare nello specifico chi è separato. Eppure, sicuramente in ogni chiesa locale una piccola percentuale di credenti è separata o divorziata. 

Queste famiglie sono strattonate da diversi problemi specifici proprio a causa del divorzio. Spesso hanno figli, e sono come quelle famiglie con un solo genitore. Anche per loro il Signore fa lo stesso: per chi si pente e si converte a Cristo, Lui dà doni e compiti da svolgere. 

Come possono trovare un ruolo e la collocazione più adatta nella chiesa? 

Intanto si può iniziare scoprendo il proprio dono spirituale da mettere a servizio degli altri. E si prosegue con lo studio personale della Parola di Dio, l’incoraggiamento alla condivisione coi fratelli e, cosa indispensabile, un tempo a tu per tu con un fratello (o una sorella per le donne) più maturo nella fede, da cui non sentirsi giudicato, ma che porti i pesi insieme, preghi insieme e con cui consigliarsi liberamente, con discrezione dell’altro. 

È bello vedere dei credenti che sono pronti a fare da zii e zie, da nonni o fratelli maggiori ai bambini di chi è divorziato. È contagioso, e ci dà la spinta a imitarli. 

La terza stagione

Le persone anziane, i vedovi e le vedove, sono altra parte integrante della chiesa. Ho avuto il privilegio di vivere con un vedovo per diversi anni. Papà era uno che aveva servito il Signore fedelmente per decenni, probabilmente per più anni dell’età della maggioranza dei nostri lettori.

Ha affrontato la vedovanza con maturità e grande attaccamento al Signore, ma non gli è stato risparmiato comunque dover affrontare il senso di perdita, la solitudine e il cambiamento che accompagna questa stagione della vita. 

Passare da una perfetta autonomia alla sempre maggiore dipendenza dagli altri non è facile, e affrontare e accettare la realtà del corpo che “si disfa” è molto pesante. Confrontarsi con il cambiamento di ruolo nella chiesa può essere doloroso. 

Il corpo-chiesa deve essere sensibile su come accogliere in modo utile, trovare un ruolo adatto, capire come amare e onorare questo gruppo di santi. Deve sapere come accompagnarli nell’autunno della loro vita e usufruire dei doni che hanno, facendo tesoro della loro esperienza. Sono una grande ricchezza, e hanno tanta saggezza di vita vissuta da condividere, consigli validi da dispensare e incoraggiamento e ascolto da ricevere.

E questo non è sempre facile, perché li vediamo fragili, stanchi, a volte si lamentano o stanno male. 

Ma ci sono i modi più semplici con cui cominciare, come telefonare o andare a fare la spesa per loro, o meglio accompagnarli nelle loro necessità o fare una semplice passeggiata. Ma credo che ci siano idee più ingegnose e meno scontate, basta mettere in moto il meccanismo.

Meglio delle polpette! 

Ho finito di montare il mobile che mi hanno regalato seguendo le istruzioni, eppure, come da copione, mi ritrovo con qualche pezzo di cui non so proprio che farmene! 

Forse non sei come me, e queste cose non ti fanno sentire frustrato. Ma a me fa questo effetto, e nel dubbio metto da parte quel pezzo cercando di intuire se sia veramente necessario. Alla fine lascio perdere. 

Nella chiesa però non ci sono pezzi in più. L’inserimento lo fa Dio in persona! 

Noi abbiamo comunque la responsabilità di essere un corpo che accoglie volontariamente, cura, onora e ama ogni membro che ne fa parte, di qualsiasi gruppo. 

Il nostro compito è gioire e soffrire insieme a loro. Questa cura individuale comincia da me e da te. Il dono spirituale che il Signore ci ha dato da quando ci siamo convertiti a Cristo, lo abbiamo ricevuto proprio per questo.

Allora, usiamolo bene!

— D.S.

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La VOCE luglio 2019

L’estate è il periodo ideale per visitare le grandi città ricche di storia e di cultura. Certe cattedrali incutono un senso di stupore e di riverenza per la loro maestosità architettonica. Quella luce particolare… quell’eco dei passi composti e del brusio dei turisti… Ogni dettaglio sembra fare appello all’animo religioso di chi vi entra.

I locali delle nostre chiese evangeliche, invece, possono sembrare molto modesti in confronto. Chi conosce la Bibbia sa che Dio “che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell’uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa” (Atti 17:24,25). 

In realtà, le uniche due strutture che Dio abbia mai ordinato di costruire come luoghi di culto non esistono più. E se esistessero, noi come non Ebrei, non avremmo molta speranza di potervi entrare. 

Gesù ha detto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto” (Matteo 4:10).

È un comandamento, ma anche il desiderio sia di Dio che del credente. 

Ma in cosa consiste l’adorazione? Se Dio desidera che io lo adori, come lo devo fare in pratica? È adorazione quello che si fa nei nostri culti? 

Dobbiamo seguire qualche tradizione, o siamo liberi di scegliere noi come, quando e dove farlo? Questa, in sostanza, era ciò una donna samaritana voleva sapere da Gesù.

Tu sai in che modo Dio vuole essere adorato? 

Di chi è la mano che baci?

La domanda della donna samaritana sull’adorazione tocca un argomento attuale ancora oggi. Qual è il modo giusto di adorare Dio? C’entra qualcosa la religione, una chiesa o un luogo preciso? Richiede un atteggiamento pio, o riti e liturgie particolari? Un atmosfera mistica e musiche che trasportino le emozioni? 

Lei era samaritana, e ai samaritani era vietato entrare nel tempio di Gerusalemme. Avevano un loro monte sacro dove andavano ad adorare il Dio degli Ebrei, un Dio che, in realtà, non conoscevano (Giovanni 4:20-22). Quel monte rappresentava qualcosa di tangibile nel loro rapporto, altrimenti astratto, con il Signore.

Ancora oggi molte persone si sentono più vicine a Dio in edifici e luoghi specifici, adatti per il raccoglimento. Ricercano un contesto, un ambiente che susciti in loro un giusto senso di solennità. 

La risposta di Gesù alla samaritana deve averla sorpresa non poco: “Credimi; l’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre” (4:21). Diceva che non c’entra affatto il luogo dove uno adora Dio, ma il modo in cui lo fa. 

È una notizia che stravolge tante opinioni, e altrettanti preconcetti: “L’ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in spirito e verità” (4:23,24).

Spirito e verità. Sono le parole chiave della risposta di Gesù. Adorare Dio nel modo che Egli vuole, è vincolato a due presupposti fondamentali: essere nati di nuovo e conoscere la verità. 

Dio è Spirito. Per godere la comunione con Lui bisogna rinascere spiritualmente. Gesù l’ha spiegato a Nicodemo, un uomo di fede che pensava che bastasse avere la religione giusta: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne, è carne; e quello che è nato dallo Spirito, è spirito. Non ti meravigliare se ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo” (Giovanni 3:5-7).

I samaritani adoravano Dio, ma non lo conoscevano (4:22). Si potrebbe dire che lo adoravano come se lo immaginavano. 

Miliardi di persone fanno lo stesso oggi. 

Il dizionario Treccani definisce il verbo adorare come rendere culto, inchinarsi, amare teneramente e con grande trasporto, avere grande passione per qualcosa, o profonda ammirazione per qualcuno, apprezzare enormemente.

Come posso amare teneramente e avere una grande passione per qualcuno che non conosco? Pretendere di nutrire una profonda ammirazione verso uno sconosciuto è praticamente impossibile! 

Ma, se non è adorare Dio quello che faccio senza conoscerlo, che cos’è allora?

Generazioni alla deriva

La Bibbia afferma che prima di conoscere Dio – prima cioè di diventare suo figlio attraverso la fede in Gesù Cristo – di fatto mi è impossibile adorarlo. La realtà è che sto adorando tutt’altro.

L’apostolo Paolo spiega, per sua esperienza personale: “Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Efesini 2:1-3).

Ecco la verità nuda e cruda dalla parola di Dio: ogni uomo e donna che non è stato vivificato da Dio adora le idee, le religioni e le opinioni mondane, non divine. Generazione dopo generazione l’umanità segue il comportamento e l’andazzo del mondo. 

Adora Satana e adora se stesso.

Può sentire un grande trasporto religioso, ma se viene meno nel praticare misericordia e giustizia, dimostra di non aver conosciuto Dio (Osea 4:1,2). 

Qui non stiamo dicendo che non ci siano tante brave persone, sincere, altruiste e impegnate per le cause giuste. Stiamo dicendo che se mancano i due presupposti della vera adorazione – la nascita dallo Spirito di Dio e l’amore per la verità – non siamo gli adoratori che Dio cerca.

E fin quando uno adora qualcun altro, e non il vero Dio, sta servendo il padrone sbagliato. E come ha detto Gesù, nessuno può servire due padroni, perché amerà l’uno e odierà l’altro, o viceversa. 

Diritto esclusivo

Ovviamente, un non credente può assistere al culto insieme ai veri credenti e cantare le stesse canzoni, o gli inni che cantiamo noi, e forse anche pregare. Anzi, tutti sono più che benvenuti a venire e ad ascoltare la predicazione del vangelo con la speranza che, anche loro, possano diventare figli di Dio. Ma l’adorazione è qualcosa che solo un figlio di Dio può offrirgli. 

La vera adorazione comincia il giorno in cui una persona si converte attraverso l’opera di trasformazione dello Spirito Santo. Lo Spirito ci convince di peccato e di giustizia, e presenta Gesù Cristo come l’unico Salvatore che può condurci a Dio per essere perdonati. Da quel momento in poi, l’adorazione è uno stile di vita, una consapevolezza della presenza di Dio e volontà di vivere per il Signore. 

La trasformazione che lo Spirito attua nel credente è radicale: da persone che non hanno mai ringraziato Dio, né l’hanno glorificato, ma hanno adorato la creatura invece del creatore, diventiamo persone vivificate e capaci di adorare il vero e unico Dio. Nati dallo Spirito per adorare nello spirito.

Per adorare Dio, bisogna conoscerlo. Egli si è rivelato nella sua parola, la Sacra Bibbia, il mezzo stabilito da Lui per sapere chi è, cosa fa e cosa desidera da noi. 

Un culto inutile

Le parole chiave della risposta di Gesù alla samaritana erano: in spirito e in verità. Abbiamo visto che solo chi è nato spiritualmente può adorare Dio in spirito. Ma il problema è che pure un credente può adorare in modo vano. 

Dio aveva rimproverato questo peccato a Israele, e Gesù, citando le parole del Padre, denunciò l’ipocrisia dei religiosi del suo tempo: “Ben profetizzò Isaia di voi quando disse: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti d’uomini»” (Matteo 15:8,9).

Per Dio è stato sempre una questione di cuore, di affetti, di priorità. 

L’adorazione non ha tanto a che fare con quello che si dice mentre si adora, ma con quello che si è dentro. 

Infatti, l’apostolo Paolo ha scritto queste parole: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà” (Romani 12:1,2).

L’adorazione è uno stile di vita. 

Il culto spirituale, gradito a Dio, è presentare i nostri corpi ogni giorno in sacrificio, morti a noi stessi ma viventi per il nostro Signore. 

Pensare di adorare con la bocca, senza essere pronti a sacrificare la nostra vita in modo completo e radicale, è adorare invano. È inutile. È mentire.

Nel Nuovo Testamento, la parola greca usata più comunemente per indicare l’atto dell’adorazione, significa letteralmente “inchinarsi” e “baciare la mano”. Tenendo questo in mente, i versetti in Romani 12 sul presentarsi a Dio come sacrifici viventi, assumono la giusta prospettiva di sobrietà e serietà. Quando adoriamo Dio non stiamo davanti a qualcuno che sia pari a noi. 

È vero che Dio ha messo lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida: “Abbà, Padre” (Galati 4:6), ma questo è stato reso possibile solo per l’atroce morte di Gesù al posto nostro. 

Dobbiamo riconoscere chi abbiamo davanti, e capire che il nostro rispetto incondizionato, il servizio e la nostra sottomissione completa sono dovuti a Lui. La vera adorazione è caratterizzata dal timore di Dio (Malachia 1:6).

Troppo spesso nei nostri incontri quello che è vissuto come adorazione non è molto diverso dal tentativo di evocare un’atmosfera piacevole che ci faccia sentire rassicurati e coccolati. Sicuramente non assomiglia all’atteggiamento che avevano Mosè, Isaia, Ezechiele, Daniele, Pietro, Paolo e tanti altri uomini di Dio davanti alla sua maestà.

 “Nell’anno della morte del re Uzzia, vidi il Signore seduto sopra un trono alto, molto elevato, e i lembi del suo mantello riempivano il tempio. 
“Sopra di lui stavano dei serafini, ognuno dei quali aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava. L’uno gridava all’altro e diceva: «Santo, santo, santo è il SIGNORE degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» Le porte furono scosse fin dalle loro fondamenta dalla voce di loro che gridavano, e la casa fu piena di fumo. 
“Allora io dissi: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» 
“Ma uno dei serafini volò verso di me, tenendo in mano un carbone ardente, tolto con le molle dall’altare. Mi toccò con esso la bocca, e disse: «Ecco, questo ti ha toccato le labbra, la tua iniquità è tolta e il tuo peccato è espiato». 
“Poi udii la voce del Signore che diceva: “Chi manderò? E chi andrà per noi?»  Allora io risposi: «Eccomi, manda me!»” (Isaia 6:1-8)

 Ecco l’esempio di quella adorazione che dovrebbe far parte della nostra vita. 

L’uomo che si avvicina a Dio in riverenza, riconosce che Egli è immensamente santo, e non può fare a meno di vedersi come peccatore che ha bisogno dell’opera continua della grazia di Dio nella sua vita. Con spirito umile, consapevole di non meritare niente, è pronto a servire.

Questo non può accadere solo la domenica al culto.

L’adorazione deve essere vissuta dal lunedì alla domenica, di settimana in settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Deve migliorare e crescere giorno dopo giorno. E un giorno, nell’eternità alla presenza di Dio, sarà gloriosa, perfetta e senza fine.

 “Chi non temerà, o Signore, e chi non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo; e tutte le nazioni verranno e adoreranno davanti a te, perché i tuoi giudizi sono stati manifestati” (Apocalisse 15:4).

Adoratori ricaricati

Per non essere solo un trattato teologico sull’adorazione (argomento troppo vasto per un articolo breve come questo), vediamo come si esprime in pratica l’adorazione come stile di vita. 

È chiaro che ogni aspetto della fede biblica va vissuto tanto in famiglia, quanto al lavoro, nel quartiere dove abitiamo, nella società, ma soprattutto nella chiesa. 

È quello che l’autore della lettera agli Ebrei affermava quando ha scritto: “Per mezzo di Gesù, dunque, offriamo continuamente a Dio un sacrificio di lode: cioè, il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non dimenticate poi di esercitare la beneficenza e di mettere in comune ciò che avete; perché è di tali sacrifici che Dio si compiace” (Ebrei 13:15,16).

La nostra voce esprime l’adorazione del cuore, i gesti confermano la sua genuinità.

Chi ci conosce, sa se stiamo adorando o “ipocritando”!

Il culto che offriamo a Dio la domenica è adorazione solo se è l’espressione onesta di quello che abbiamo messo in pratica durante la settimana.

Lo scrittore dell’epistola agli Ebrei dice ancora: “Avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo ferma la confessione della nostra speranza, senza vacillare; perché fedele è colui che ha fatto le promesse. Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci all’amore e alle buone opere, non abbandonando la nostra comune adunanza come alcuni sono soliti fare, ma esortandoci a vicenda; tanto più che vedete avvicinarsi il giorno” (10:22-25).

In tutta onestà dobbiamo ammettere che non siamo adoratori costanti. Abbiamo prove e difficoltà che ci ostacolano, ma più di ogni altra cosa è proprio la nostra vecchia natura che ci frena, e abbiamo bisogno del nostro tempo insieme a tutta la chiesa la domenica, proprio per ricaricarci e spronarci.

I nostri incontri regolari come credenti in Cristo sono essenziali nel piano di Dio per la nostra crescita spirituale. Perciò ogni momento del culto è importante e contribuisce alla nostra adorazione collettiva. Tu contribuisci al mio progresso nella fede, come io al tuo. 

Allora sii preparato quando arrivi. Il tuo cuore sia ben disposto. Non fare tardi il sabato sera per non arrivare mezzo addormentato: non è utile per una degna adorazione di Dio. 

Arriva in orario. Anzi, arriva prima che cominci il culto. Se prevedi traffico o che avrai difficoltà a trovare parcheggio, mettilo in conto, e parti prima. La puntualità non è solo segno di buona educazione, ma dimostra anche la tua voglia di adorare  insieme ai tuoi fratelli e sorelle. Arrivare in ritardo distrae gli altri, e ti fa perdere una parte importante del culto.

C’è un inno che dice: “È vano il cantare, è indegno il pregare, se altrove è la mente, se muto è l’amor!” Con poche parole esprime un concetto fondamentale. 

Anche con la musica adoriamo Dio. In alcune chiese la musica è diventata più importante delle parole. È giusto che sia fatta nel miglior modo possibile, degno del nostro Creatore, ma la musica deve essere funzionale allo scopo per cui ci si riunisce. E la musica che si fa, per essere eccellente, deve essere consona alle parole che si cantano. 

L’adorazione non ha a che fare con noi, ma con Dio. Stiamo parlando di Lui, dobbiamo farlo con il dovuto rispetto, e non per divertirci.

I canti nel culto, che siano scelti in anticipo da chi presiede o proposti dalla congregazione, hanno la loro ragione d’essere solo nella misura in cui, esprimendo verità bibliche, aiuteranno i credenti ad adorare a viva voce. Non è il karaoke, dove ognuno canta la sua canzone preferita. È il tempo in cui i credenti innalzano la loro voce insieme per riflettere su chi è Dio, cosa fa per noi, e per lodarlo e ringraziarlo. 

Se non sai cantare, se ti vergogni della tua voce, canta sottovoce o ascolta soltanto, e pensa nel tuo cuore alle parole cantate. Un tempo così non è mai perso!

La preghiera durante il culto è un momento importante in cui tutta la chiesa unita parla al suo Signore. Ascoltare le preghiere, e dire amen, è un’espressione dell’adorazione comunitaria. Non è la stessa cosa che la preghiera privata, per conto proprio. Qui si è un corpo unito, qui quello che si dice in preghiera riguarda tutti i presenti. Per questo è importante che chi prega lo faccia ad alta voce, in modo che gli altri possano comprendere, partecipare ed esserne incoraggiati. 

Anche contribuire all’offerta è parte dell’adorazione. Non è qualcosa che debba sorprenderci o coglierci impreparati. All’ammontare del dono bisogna pensare già a casa. Non va quantificato guidati dall’impulso del momento. 

L’offerta è adorazione, prima di tutto perché significa riconoscere che tutto quello che abbiamo viene da Dio. È anche un segno di gratitudine e di dipendenza da Dio. 

È un modo pratico di partecipare attivamente al progresso del vangelo. Ecco perché non deve essere solo una reazione emotiva a un appello, o qualcosa che facciamo per abitudine, o perché ci sentiamo in dovere di farlo.

Il fulcro dell’adorazione collettiva è chiaramente l’esposizione della Parola di Dio. Perciò è fondamentale che chi predica sia ben preparato, abbia studiato il testo biblico di cui parlerà, e abbia vissuto durante la settimana quello che insegnerà la domenica. Il suo messaggio deve essere così chiaro che chi l’ascolta sappia come adorare meglio, durante la settimana, il Dio del cielo e della terra. 

La cena del Signore è anch’essa una espressione di adorazione, un momento meraviglioso in cui ricordiamo quello che ha fatto. Celebrandola insieme affermiamo davanti a tutti su quale base si fonda la nostra fede: sulla sola opera di Cristo che per la sua grazia ha fatto sì che siamo riconciliati con Dio, e possiamo adorarlo in spirito e verità. 

È anche un richiamo per esaminarci, ognuno per conto proprio, e confessare a Dio  il nostro peccato, abbandonandolo.

L’adorazione come stile di vita cambia il tuo modo di pensare alla chiesa. Troverai voglia e piacere di essere puntuale per partecipare ai canti, alla preghiera, all’ascolto del messaggio, all’offerta e alla cena del Signore, perché dopo aver vissuto la settimana adorando Dio potrai ancora contribuire alla crescita degli altri. 

L’adorazione non è casuale, ma pensata, e prodotta da Dio in noi. 

Non più a Gerusalemme, nè in Samaria. 

La vera adorazione è uno stile di vita quotidiano, perché se non hai adorato Dio in spirito e verità durante la settimana, non basteranno le musiche, l’atmosfera e gli espedienti più suggestivi a evocare in te una vera adorazione in chiesa!

  

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La VOCE giugno 2019

È nella natura umana pensare che il “nostro” modo di ragionare e di fare le cose sia quello giusto. Da quando ci siamo convertiti a Cristo, abbiamo imparato e adottato il modo di vivere la fede della nostra chiesa locale, in cui siamo cresciuti e maturati. 

Ci è familiare il modo in cui si svolge il culto: così si è sempre fatto, e così si farà.

Ma che succederebbe, se una domenica mattina l’Apostolo Paolo in persona entrasse nella nostra chiesa? Proprio lui, che prima avrebbe ucciso persone come noi. Lui, che dopo la sua conversione, portava sulla sua pelle le cicatrici per il vangelo.

Cosa penserebbe osservando come ci stiamo preparando per il culto? 

Canterebbe anche lui i nostri coretti preferiti, con contenuti superficiali? O preferirebbe gli inni classici in un italiano arcaico? Troverebbe gli strumenti e gli arrangiamenti appropriati?

Si identificherebbe con le nostre preghiere? 
Sarebbe d’accordo con il messaggio predicato?

Ai tempi suoi nessuno aveva una Bibbia da portare alle riunioni, tanto meno un tablet o il telefonino con l’app per leggerla. Le Sacre Scritture erano un lusso che pochi potevano permettersi.

Molto è cambiato da allora, anche in meglio, ma certe cose non dovrebbero essere affatto diverse. 
Dio certamente non è cambiato. Ma i credenti?

Le chiese ai tempi di Paolo erano appena nate, Gesù era risalito in cielo da poco tempo. C’erano ancora dei credenti convertiti durante la Pentecoste, prima che cominciassero le persecuzioni. 
Molti avevano perso tutto, fuggendo in altre città. Le prove che dovettero affrontare non erano certo i disturbi psicoemotivi per le normali difficoltà della vita. 

Cosa direbbe l’Apostolo Paolo alla nostra assemblea la prossima domenica?

"Troppa vanità, amici miei!"

I credenti del primo secolo sarebbero sbalorditi di quanto è diversa la vita adesso: macchine, aerei, grattacieli, palazzi di vetro, plastica e altri materiali nuovi, cibi sintetici, medicine…  I figli vanno tutti a scuola, le mogli fanno carriera, non si lavora più tutto il giorno…  

Progresso in ogni campo.
Troverebbero tantissime novità “sotto il sole” di cui meravigliarsi. 
Eppure – lo afferma la Bibbia – nulla è cambiato dai tempi loro. 

 

Vanità delle vanità, dice l’Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità. Che profitto ha l’uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole? 
Una generazione se ne va, un’altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri. 
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre. 
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l’uomo possa dire; l’occhio non si sazia mai di vedere e l’orecchio non è mai stanco di udire. 
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole.  C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo»? Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto. 
Non rimane memoria delle cose d’altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi. 
– Ecclesiaste 1:2-11

 

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, le cose sono migliorate. Ma l’uomo stesso, nella sua essenza, non è cambiato affatto.

Gli stessi desideri e bisogni continuano a farla da padrone nel cuore umano, spingendoci a rincorrere cose futili. 

Salomone, per la singolare saggezza che Dio gli aveva dato, sapeva bene che tutto quello che gli stava intorno era un vapore. Purtroppo saperlo non è sufficiente. E così anche lui era stato sedotto e travolto dal desiderio di possedere, solo per scoprire dalla sua esperienza quello che avrebbe dovuto già sapere: tutto è vanità!

Se l’Apostolo Paolo potesse visitare le nostre chiese oggi, forse anche lui confermerebbe che c’è troppa vanità nel moderno mondo evangelico. 

Non lo direbbe con arroganza, lui che aveva rincorsa la vanità come tutti gli altri (Efesini 2:1-3).
Lo direbbe con la voce spezzata. 

Si siederebbe in mezzo a noi e, guardandoci negli occhi, direbbe con le lacrime: “Troppa vanità, amici miei! State vivendo troppo per il presente e poco per il futuro.”

In Atti 20 c’è un suo discorso in cui ripercorre il suo lavoro come anziano-pastore della chiesa di Efeso. Sono parole che esprimono tutta la sua premura, l’attenzione e un amore sincero per la chiesa. C’è la grande sollecitudine di aiutare ogni credente a scoprire e a perseguire i veri valori eterni della vita.

Noi, credenti del terzo millennio, cosa stiamo rincorrendo? Chi ci insegna a vivere con una prospettiva giusta?

Nelle prime chiese c’era un gruppo di credenti che l’aveva capito.

La chiesa di Tessalonica godeva della reputazione di essere approvata da Dio. La loro conversione a Cristo aveva avuto non solo un forte impatto su loro stessi, ma anche un effetto onda su vasta scala. Ecco come ne parlava Paolo: 

“Infatti il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti sapete come ci siamo comportati fra voi, per il vostro bene. 
Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. 
Infatti da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne; perché essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta fra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente” (1 Tessalonicesi 1:5-10).

La loro trasformazione era stata notevole. Non avevano fatto, come spesso accade oggi, una mera professione di fede solo a parole, una preghiera alla fine di una riunione e tutto finisce lì. 

Il loro modo di vivere era cambiato drasticamente. Tutti ne parlavano.

Qual è, allora, la differenza? Come mai questo tipo di cambiamento autentico spesso fa fatica a manifestarsi nelle nostre chiese?

I tessalonicesi non erano supereroi della fede. Ma quello che hanno fatto era imitare Paolo il quale, lungi dal vivere una finta spiritualità, si riconosceva il più grande dei peccatori. 

Con rammarico genuino, Paolo si rendeva conto che certe volte faceva cose che non avrebbe voluto fare, e che, invece, in altri momenti non faceva quello che voleva (Romani 7:21-25). Non era perfetto. 

Ma Paolo, e i tessalonicesi, si distinguevano da molti altri perché avevano abbracciato il lavoro dello Spirito Santo in loro. Avevano dato retta alla correzione di Dio, che mirava a convincerli, ad aiutarli a comprendere la sua volontà, e a dargli la forza di compierla. 

Non supercredenti, ma obbedienti a Dio. 

Erano cambiati, erano diventati degli esempi, e la loro fede si vedeva. 

Questa drastica trasformazione era diventata argomento di conversazione tra i credenti di tutta la regione.

La fede dei tessalonicesi era caratterizzata da tre azioni distinte:
- avevano lasciato la vecchia vita, 
- servivano il Signore con fedeltà 
- e vivevano in funzione del ritorno di Cristo. 

Per dirlo in altre parole, avevano rinunciato a rincorrere le vanità, come facevano in passato, per vivere il presente con una prospettiva futura.

La loro conversione non era stata facile, e la vita non gli aveva risparmiato difficoltà, ma la loro preoccupazione era vivere per cose che hanno un valore eterno.

E loro oggi sono un esempio per noi, che siamo facilmente distratti da mille attrazioni inutili. 

Se Paolo visitasse il nostro culto, molto probabilmente non interverrebbe sulle cose esteriori che non vanno. Le noterebbe senz’altro, perché denunciano qualcosa di più grave che non va. Ma farebbe massima attenzione alla sostanza, all’insegnamento, all’atteggiamento e allo scopo in ogni cosa che si fa. Ci inviterebbe a fermarci e a valutare la nostra vita, per capire se stiamo vivendo per il presente o per il futuro. 

E, onestamente, potrebbe essere difficile capire cosa significhi vivere per l’eternità. Se si è intrappolati nel presente che, con tutti i suoi tentacoli, avvolge e stringe da ogni parte, saremo incapaci di occuparci del bene eterno, sia nostro che di chi ci sta vicino.

Diventa tutto più chiaro, quando consideriamo le parole di Gesù.

“Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua.  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà.  Che gioverà a un uomo se, dopo aver guadagnato tutto il mondo, perde poi l’anima sua? O che darà l’uomo in cambio dell’anima sua?” (Matteo 16:24,25).

“Gesù parlò loro di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita»” (Giovanni 8:12 ).

“E disse loro: «Venite dietro a me e vi farò pescatori di uomini». Ed essi, lasciate subito le reti, lo seguirono” (Matteo 4:19,20). 

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente»” (Matteo 28:19,20).

La chiesa ha il solenne compito di fare di ogni credente un discepolo di Cristo. Non per essere un bravo membro della comunità. Non per portare avanti i programmi della chiesa come si è sempre fatto. Non per perpetuare un’opera evangelica o una denominazione.

Discepoli. Discepoli che seguono il Maestro. Che vivono con una prospettiva eterna. Che capiscono che la vita è breve e che il mondo passa, e che solo il frutto che Dio produce in noi e attraverso noi è eterno.

Da questa prospettiva tutte quelle cose che consumano il nostro tempo e le nostre energie appariranno senza senso se non addirittura dannose. 

Questa consapevolezza di essere discepoli è ciò che la chiesa deve continuare a trasmettere nell’insegnamento biblico, nelle preghiere ad alta voce, nei canti e in ogni altra attività. 

Ovviamente è solo lo Spirito Santo che può produrre una vera maturità spirituale in noi, ma se la Parola di Dio non è predicata, cantata e vissuta con fedeltà, chi ci ascolta e osserva come fa ad essere sollecitato dallo Spirito?

Paolo aveva conosciuto molti credenti pronti a morire per la loro fede. Tanti di loro sono stati uccisi. Troverebbe la stessa prontezza in noi? Saremmo pronti a dare la vita per il vangelo?

La nostra priorità non può e non deve essere quello di inseguire ancora le vanità della vita. Rinunciare a se stessi vuol dire rinunciare tutto quello che per un non credente è priorità assoluta: possedere cose solo per il gusto di soddisfare se stessi, apparire per sembrare importanti e realizzati, avere una posizione per essere riconosciuti e sentirsi appagati.

Cos’è un cristiano se non uno che, per seguire Cristo e fargli piacere in ogni cosa, rinuncia al peccato e vive per attirare altri alla salvezza? 

“Okay”, dirai, “è tutto vero, e ci credo. Ma, in sostanza, cosa dovrebbe cambiare nella mia vita?” 

Tanto per cominciare, chiediamoci come stiamo vivendo le nostre relazioni, quali siano le nostre mete, quali le nostre priorità. Esaminiamo con onestà come e perché facciamo il nostro lavoro, cosa compriamo, cosa teniamo nel nostro armadio… 

Troppo radicale? Prova a invitare Paolo a casa tua a guardare da vicino le tue scelte! 

E più che Paolo, che non verrà né in chiesa né a casa, considera il Signore Gesù. Lui è sempre presente, osserva ogni cosa e scruta la nostra mente e il nostro cuore. A lui non possiamo nascondere nulla! 

Ma per aiutarci a rivalutare la nostra vita, facciamo qualche esempio pratico di tutto quello in cui possiamo senz’altro migliorare.

 

COMINCIANDO DAI SINGLE, perché lo siamo stati tutti, chi per pochi anni, chi per più a lungo, ecco alcune indicazioni.

Paolo ha detto che per un credente essere single ha dei vantaggi. 

È una condizione privilegiata per coloro che vogliono vivere per le cose eterne. Non devono preoccuparsi di piacere al marito o alla moglie, e sono quindi più liberi di dedicarsi a servire il Signore (1 Corinzi 7: 32-35).

Un credente single, però, se non ha una prospettiva eterna per la sua vita, rischia di chiudersi in se stesso per via delle responsabilità e dei problemi che si trova a dover affrontare da solo. La solitudine può farsi sentire e i tentacoli del vivere solo per il presente sono lì, pronti ad avvilupparlo e a isolarlo sempre di più.

Ma se ti pesa non essere sposato, non è il momento di arrendersi e continuare a credere che nessuno ti capisca. Dio capisce i single. È lui che ha permesso la condizione in cui ti trovi e la vuole usare per la sua gloria.

Può darsi che Dio ti stia preparando per una vita da sposato, ma nel frattempo sei nella condizione perfetta per servirlo come un discepolo senza legami! Pianifica il tuo presente e il tuo futuro, considerando che la tua priorità è essere un pescatore di uomini, un discepolatore, un servitore.

 

SE SEI SPOSATO, cosa vuol dire essere un marito o una moglie che vive per ciò che è eterno? 

Comincia con la consapevolezza che la vita di coppia richiede impegno e costanza. Bisogna darsi da fare e lavorare sodo su se stessi per essere sicuri che il matrimonio rispecchi la descrizione che Dio ha ispirato in Efesini 5. 

Il comportamento del marito deve riflettere quell’amore capace di donarsi completamente, lo stesso che Cristo ha per la chiesa. L’atteggiamento della moglie invece deve esprimere la gioiosa sottomissione della chiesa a Cristo. 

In un mondo dove il matrimonio viene preso sempre più sottogamba e disprezzato, la condotta santa dei coniugi credenti è un esempio abbagliante di questa prospettiva eterna. 

Se sei un marito, hai il sacro compito, che Dio ti ha affidato, di essere un esempio di Cristo per la famiglia, ma hai anche la responsabilità di aiutare tua moglie a diventare anche lei più simile all’immagine di Cristo. Il modo in cui la tratti e ne parli dovrebbe sorprendere positivamente coloro che vi osservano. 

Se sei una moglie, la tua collaborazione con tuo marito e la tua gioiosa sottomissione a lui dovrebbero attirare altri al Signore. In un mondo dove la sottomissione è una parolaccia, una donna che cura di più il suo cuore piuttosto che il suo look, sarà una luce irresistibile. 

E visto che il matrimonio biblico è un’immagine del rapporto di Cristo con la chiesa, è l’intenzione di Dio che la famiglia cristiana sia anche un richiamo a diventare seguaci di Cristo. 

Una coppia unita nell’amore e negli intenti è efficace per raggiungere un mondo che necessita del meraviglioso messaggio del vangelo. La loro è una casa ospitale, aperta, accogliente e invitante che rispecchia valori eterni.

 

E I FIGLI? È tragico vedere quanti figli di credenti abbandonino la fede molto presto. In passato poteva succedere che smettevano di farsi vedere in chiesa intorno ai 18 anni. Oggi tanti genitori si arrendono prima, sentendosi incapaci di trasmettere ai propri figli l’importanza della fede in Cristo.

Si sa, ogni ipocrisia, ogni fede finta è presto smascherata in casa. 

Per anni i figli hanno osservato il modo in cui i genitori si sono trattati in privato, l’atteggiamento con cui partecipano alla vita della chiesa e come si rapportano agli altri. 

Non gli è sfuggito con quanta facilità la vita cristiana prendeva il secondo posto rispetto al lavoro e alle attività in generale. I figli hanno imparato, senza che i genitori glielo abbiano mai detto a parole, che la scuola, lo sport, la musica e tante attività erano più importanti della vita spirituale. 

La mancanza di coerenza prima, e  della correzione poi, con conseguenze amorevolmente giuste per le disubbidienze, hanno eroso ogni traccia di insegnamento del vangelo nei figli. 

Se ami tuo figlio, non lasciare la tua responsabilità di inculcargli valori eterni solo agli insegnanti della scuola domenicale. Il tuo lavoro non è più importante della vita eterna di tuo figlio. 

 

FINO A QUANDO? Essere discepoli non finisce mai! Vivere per ciò che eterno comincia nel giorno in cui ci convertiamo a Cristo e finirà il giorno in cui il Signore ci prenderà con sé. 

Non saremo mai perfetti, non riusciremo sempre a fare la cosa giusta, ma il fatto che sia difficile non può essere il motivo per cui smettiamo di impegnarci. 

Troppo radicale? Spero che non lo pensi sul serio. L’Apostolo Paolo cosa ti direbbe? Ma ancora più: cosa direbbe il Signore? 

  

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La VOCE febbraio 2019

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SCANDALO IN CHIESA – Guglielmo risponde


 

Perché dovrei accontentarmi?

Essere schizzinosi della chiesa che frequentiamo non è un lusso che ci possiamo permettere in Italia. Con più di 30.000 tra paesi e cittadine senza alcuna presenza evangelica, dobbiamo considerarci fortunati se abbiamo una chiesa da frequentare!

Il problema è che, nel piano biblico, la chiesa ha una funzione tutt’altro che marginale per un cristiano. Per crescere sano e diventare maturo in Cristo ogni credente deve identificarsi nel corpo del Signore, la chiesa: deve vivere, partecipare, servire e confrontarsi con i suoi fratelli in fede. 

Può capitare di trovarsi isolati da altri credenti, anche per periodi piuttosto lunghi, ma è un’eccezione, non la norma prevista da Dio per i suoi figli.

Oggi possiamo ovviare a questo isolamento: basta uno smartphone e puoi seguire in tempo reale riunioni e conferenze delle chiese in qualunque parte del mondo. Questo però non potrà mai sostituire una chiesa locale.  

I primi credenti si riunivano assiduamente per ascoltare l’insegnamento degli apostoli. 

A Tito e Timoteo, Paolo scrive di mettere in ordine non chiese virtuali, ma locali e reali, con problemi veri. I membri delle chiese si conoscevano tra loro. Conoscevano le loro guide. Se qualcuno veniva ripreso, si sapeva da chi. Sapevano chi s’impegnava a seguire la sana dottrina e chi invece faceva compromessi con la sua fede.

Oggi, in alcune chiese si rischia davvero di non sapere non solo chi ne faccia parte o chi siano le guide, ma anche quali siano i principi biblici che ogni membro deve seguire. Assomigliano a quei club dove si entra e si esce senza un grande senso di appartenenza e tantomeno di responsabilità. 

Sai riconoscere una chiesa sana? 

Chiese di legno, opere di fieno, fede di paglia...

1. Una chiesa sana è formata da veri credenti

Normalmente, in una chiesa ci sono sempre persone  in visita, che non ne fanno parte ufficialmente, e persone che frequentano anche regolarmente ma che non hanno mai fatto professione pubblica di fede. Non sono loro la chiesa locale. 

Una chiesa locale sana è formata da un gruppo di persone che sono chiaramente dedite alla crescita spirituale personale e quella degli altri.

“...come bambini appena nati, desiderate il puro latte spirituale, perché con esso cresciate per la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono. Accostandovi a lui, pietra vivente, rifiutata dagli uomini, ma davanti a Dio scelta e preziosa, anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1 Pietro 2:1-5).

Il primo segno di una chiesa sana è che sa riconoscere i veri credenti, si impegna a farli crescere, ed evangelizza coloro che non lo sono.

Si preoccupa anche di coloro che hanno fatto una professione di fede, ma non fanno progressi. Hanno assunto le abitudini e i comportamenti “giusti” per fare parte dello “stare insieme”, ma sono privi di frutti chiari di cui la Bibbia parla.

2. È dedita alla predicazione espositiva

La predicazione espositiva per molti è diventata sinonimo di un sermone arido e noioso. La colpa è dell’uso improprio dei termini. E dei cattivi esempi di predicazione pseudo espositiva. 

Il difetto è da attribuire non al metodo, ma all’applicazione d’esso. 

La migliore definizione di predicazione espositiva è la lettura del testo biblico, la sua spiegazione e la sua applicazione alla vita pratica. 

Non è un’invenzione del nostro tempo. Guarda quello che ha fatto Esdra: “Essi leggevano nel libro della legge di Dio in modo comprensibile; ne davano il senso, per far capire al popolo quello che leggevano” (Neemia 8:8).

Commentare le Scritture versetto per versetto è noioso e sterile solo nella misura in cui l’oratore non si è impegnato nel prepararsi. Pensieri sconnessi e confusi non fanno onore alla Parola di Dio.

Una chiesa sana si riconosce dall’insegnamento basato esclusivamente sulla Bibbia, non sulle opinioni o tradizioni del predicatore o della chiesa. 

L’insegnamento della Parola di Dio non è solo un aspetto della vita di chiesa, ma ne è il cuore stesso. Dev’essere costante, assolutamente biblico e praticamente applicabile alla vita dei credenti.

3. Ha guide qualificate

Lo status di alcune chiese è nel migliore dei casi confusionale, nel peggiore totalmente antibiblico.

Quando Paolo ha scritto a Tito che “Per questa ragione ti ho lasciato a Creta: perché tu metta ordine nelle cose che rimangono da fare, e costituisca degli anziani in ogni città, secondo le mie istruzioni” (Tito 1:5), è ovvio che le chiese non erano in ordine finché non avrebbero avuto guide qualificate. 

Le guide hanno un compito fondamentale: insegnare la sana dottrina, predicare la Parola di Dio, sorvegliare la chiesa e proteggerla da attacchi interni ed esterni, e pregare per ogni suo membro.

Troppe chiese moderne si accontentano di avere delle guide non qualificate o di non averle affatto. Sembra quasi un motivo di vanto per alcune. Come se avessero trovato nella “democrazia” la soluzione migliore. 

Altre chiese, senza grandi criteri eleggono e mandano via le guide come meglio credono. Poi ci sono anche guide che si dimettono, eppure continuano a dirigere la chiesa. 

La chiesa non è sana quando accantona, per scelta o per ignoranza, i chiari principi biblici riguardo a chi può guidare una chiesa locale.

4. Ha convinzioni dottrinali chiare e bibliche

“La dottrina divide, ma l’amore unisce.” L’avrai sentita anche tu questa banalità. È il sentimento di tutti gli ecumenisti: bisogna essere uniti ad ogni costo.

Dottrina però non è una parolaccia. Significa semplicemente insegnamento. La Bibbia ne è piena.

Senza insegnamento, senza dottrina, non sapremmo nulla su Dio.

Dare insegnamento è lo scopo principale della Parola di Dio. Di conseguenza la dottrina deve essere l’elemento centrale della vita di chiesa.

“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Timoteo 3:16,17).

Nei versetti che seguono quelli citati, l’apostolo Paolo comanda a Timoteo di continuare a predicare la Parola, cioè di indottrinare i credenti.

Una chiesa dove non c’è chiarezza dottrinale non produrrà mai credenti completi, forti, ben preparati, con convinzioni bibliche solide. 

5. Cura e discepola i credenti 

Curare i credenti non è lo stesso che avere dei programmi! Certe chiese sono forti nel proporre “6 sedute per i nuovi convertiti”, programmi speciali per “approfondimento spirituale”, conferenze di consacrazione ecc. L’intento è certamente nobile. Ma discepolare un credente va ben oltre questi incontri mirati, ma limitati.

È difficile che corsi e programmi intensivi da soli riescano a produrre un cambiamento concreto e duraturo. Passata l’eccitazione iniziale le persone rimangono deluse e scoraggiate. Tutto ritorna a un’apatia generale. 

Curare i credenti è un’occupazione costante che durerà fino a che il Signore non sarà tornato o la persona non sarà andata in cielo. 

Discepolare è trasmettere a qualcuno, a parole, ma soprattutto con l’esempio, come si vive da credenti in famiglia, in chiesa, a lavoro, nelle relazioni, nel tempo libero, nelle varie fasi d’età – in gioventù e in vecchiaia, in salute e in malattia. Richiede spirito di sacrificio, sia da parte del discepolo che del discepolatore.

Forse pensavi che il modello biblico potesse funzionare quando la società era diversa e meno frenetica della nostra. Il comando di Gesù però non è legato a un periodo storico particolare, bensì al concetto di avere una chiesa sana che funzioni!

“Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutte quante le cose che vi ho comandate. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:19,20).

Noi tutti siamo chiamati a camminare l’uno accanto all’altro, il più maturo con altri meno preparati. Siamo chiamati a fare discepoli, indipendentemente da programmi, manuali e corsi speciali. Semplicemente, come credenti che si aiutano a vicenda nel cammino cristiano. 

E, come Gesù ha promesso, abbiamo in Lui il miglior tutore possibile per fare questo!

6. Evangelizza

Questo è un aspetto che molte chiese si prodigano a fare regolarmente. Quello che distingue una chiesa sana, però, è che parla di Gesù in modo esclusivamente biblico.

L’Italia è un paese difficile, evangelizzare è un compito arduo e per molti versi lo si fa senza grandi risultati. Spinti dal desiderio di avvicinare le persone si è tentati di adottare stratagemmi e metodi che hanno poco o niente di biblico. 

Per esempio, ho sentito parlare di metodi di evangelizzazione dove il neofita si converte quasi senza saperlo. Comincia a frequentare un gruppo, partecipa alle discussioni, si trova d’accordo con quello che si dice. Così, senza neanche aver vissuto coscientemente la transizione, abbraccia un nuovo stile di vita senza traumi o crisi di coscienza.

Non stiamo cercando di aumentare gli adepti alla nostra fede! Non usiamo parole e promesse ingannevoli per attirare persone alla nostra religione! 

Un messaggio diverso da quello storico, ortodosso, non è affatto una buona notizia, ma un messaggio che condanna le persone all’inferno.

Una chiesa sana invece predica il vangelo con tutti i suoi elementi: il peccato, l’ira di Dio, l’inferno, il ruolo unico di Cristo nella salvezza, la sua resurrezione e il suo riconoscimento come Signore e salvatore della chiesa. Il vangelo non va per il sottile, perché si tratta del destino eterno delle anime.

Il tutto condito dall’amore e dalla profonda riconoscenza per l’opera di Dio nella nostra vita.

7. Ama e difende l’unità

Forse è l’aspetto più sottovalutato nelle chiese. L’amore non è una bella aggiunta. È un elemento fondamentale e necessario.

Professare la fede senza mostrare amore tangibile per tutti i credenti non è solo una contraddizione, ma una vera e propria eresia.

“Se uno dice: «Io amo Dio», ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto. Questo è il comandamento che abbiamo ricevuto da lui: che chi ama Dio ami anche suo fratello” (1 Giovanni 1:20,21).

Sapevi che l’intensità del tuo coinvolgimento e la tua relazione con gli altri credenti è un elemento fondamentale della tua testimonianza? “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13:35).

Sottovalutare l’unità della chiesa è un grande ostacolo alla crescita dei credenti e della chiesa stessa. Le incomprensioni, le chiacchiere, i sospetti, i rancori, le invidie non sono attraenti. E non restano nascosti a lungo.

Dio ci comanda di amare i nostri nemici. Perché ameresti meno un tuo fratello con cui passerai l’eternità?

8. Osserva gli ordinamenti biblici

Il battesimo e la cena del Signore.

Il battesimo per immersione è l’espressione visibile della salvezza. In esso, in ubbidienza alle Scritture, il credente adulto testimonia la propria identificazione con la morte e la resurrezione di Gesù Cristo. Il battesimo in sé, senza una testimonianza chiara della propria salvezza e di una nuova vita, non ha alcun valore. 

La cena del Signore commemora anch’essa la morte e la resurrezione del Signore, ma laddove il battesimo esprime la salvezza, la cena del Signore ha a che fare con la santificazione del credente. 

È un momento di esame di se stessi. 

Non deve parteciparvi nessuno che ha del peccato inconfessato nella sua vita. 

Chi mangia del pane e beve del vino dimostra di avere una relazione trasparente e coerente con Dio e con gli altri membri della comunità. Infatti è scritto: “Ora ciascuno esamini se stesso, e così mangi del pane e beva dal calice” (1 Corinzi 11:28).

Ogni chiesa sana osserva regolarmente questi ordinamenti. 

E ogni credente deve essere spronato a rivalutare regolarmente il proprio cammino col Signore.

9. Riconosce i doni dei credenti e li aiuta a svilupparli 

Una chiesa sana è un luogo dove i credenti sono incoraggiati a scoprire i loro doni e a metterli a servizio di Dio per il beneficio di tutti.

“Da lui tutto il corpo ben collegato e ben connesso mediante l’aiuto fornito da tutte le giunture, trae il proprio sviluppo nella misura del vigore di ogni singola parte, per edificare se stesso nell’amore” (Efesini 4:16).

 “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri. Se uno parla, lo faccia come si annunciano gli oracoli di Dio; se uno compie un servizio, lo faccia come si compie un servizio mediante la forza che Dio fornisce, affinché in ogni cosa sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartengono la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen” (1 Pietro 4:10,11).

I doni glorificano Dio, non il credente!

10. Pratica la disciplina biblica

I problemi dovuti al peccato ci saranno sempre. Anche nelle chiese sane.

In una chiesa sana, infatti, affrontare il peccato è una priorità, perché la chiesa deve rispecchiare, per quanto possibile, la santità e la purezza di Dio. 

Nella famiglia di Dio non c’è posto per inquisizioni e processi per la condanna; il peccato deve essere affrontato biblicamente. 

Lo scopo non è quello di squalificare qualcuno, ma di correggere e aiutare i veri credenti a vivere in un modo che glorifichi Dio.

La disciplina biblica mira a ristabilire il credente che ha peccato alla comunione col Signore e con la chiesa, e a mettere in guardia gli altri a non sottovalutare la gravità e le conseguenze del peccato.

“Se tuo fratello ha peccato contro di te, va’ e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d’ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d’ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano” (Matteo 18:15-17).

Le istruzioni bibliche sono chiare. Le guide di una chiesa sana le seguono fedelmente.

11. La chiesa sana promuove la preghiera

La vita di una chiesa sana non è facile, anzi è impossibile senza l’aiuto del Signore. Perciò la preghiera deve essere la forza dietro ogni decisione e ogni compito svolto nella chiesa.

È la responsabilità delle guide pregare regolarmente per tutti i ministeri e i membri della chiesa – se l’hanno fatto gli apostoli nella chiesa primitiva, quanto più ne abbiamo bisogno noi oggi!

Tempi di preghiera, con tutta la comunità unita e partecipe, caratterizzano la vita di una chiesa sana. La preghiera promuove una consapevolezza di dipendenza da Dio e la necessità di trovare nel Signore le proprie forze. 

Credenti sani pregano gli uni per gli altri anche in privato, e questo consolida la comunione e alimenta l’amore genuino gli uni per gli altri.

Queste undici caratteristiche 

non sono un modo per fare una graduatoria delle chiese, ma sono le qualità bibliche che distinguono quei credenti e quelle chiese che vogliono onorare Dio in ogni cosa. 

Se non si è sempre attenti a tenere vive queste caratteristiche, si rischia di sostituire la centralità di Dio con l’uomo. La chiesa diventa un covo di uomini carnali, che cercano di prevalere gli uni sugli altri, e dove la soddisfazione umana diventa più importante del voler piacere a Dio. 

La Bibbia ci ha messo in guardia proprio su questo: “Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole” (2 Timoteo 4:3,4).

È l’istantanea dei nostri tempi. 

Tenere alta la Parola di Dio, onorarla e osservarla in tutto e per tutto non appaga la carne. 

I compromessi sono in agguato. L’apostasia comincia con le guide che non fanno il loro dovere, e con le congregazioni insoddisfatte che non conoscono le Scritture e non hanno il timore di Dio. 

Quando è doveroso cercare una nuova chiesa

Se frequenti una chiesa che mostra chiari segni di non essere sana, cosa dovresti fare?

- Prima di tutto assicurati che le tue valutazioni siano corrette, non puoi sempre sapere tutto quello che avviene “dietro le quinte”.

- Prega regolarmente e con serietà per le guide e per gli altri credenti.

- Sii d’esempio ai credenti nel parlare, nel comportamento, nell’amore, nella fede, nella purezza, nell’attaccamento alle Scritture.

- Attenzione a non parlare male di nessuno, e non fare nulla che possa dividere la chiesa, o nuocere a qualcuno.

- Se hai delle perplessità fondate, parlane con le guide in privato. Fallo con rispetto senza belligeranze, pronto ad ascoltare. 

- Evita i rancori.

- È possibile che dopo aver fatto questo arrivi il momento di lasciare la chiesa. Se le motivazioni sono giuste, lo farai anche a costo di dover fare sacrifici personali per trovare una chiesa che, se non altro, aspira a essere una chiesa sana.


—Guglielmo Risponde—

Scandalo in chiesa

Caro Guglielmo, 

Succede nella nostra chiesa una cosa che mette molti di noi a grande disagio. O, forse, sarebbe più vero dire che ci causa grande dolore.

Due fratelli abbastanza importanti e noti non vanno d’accordo fra di loro. Anzi, più di una volta hanno litigato davanti ad altri e per lunghi periodi non si sono rivolti neanche la parola e salutati.

Cosa possiamo fare? Tutti hanno un po’ paura di intervenire per non peggiorare le cose, o per non offendere nessuno.

—Senza nome, per favore

 

Il vostro problema non è da poco. 

Le liti fra fratelli, anche fra fratelli anziani, come anche fra sorelle, fra marito e moglie credenti o fra giovani della chiesa, sono fatti gravissimi, se non vengono risolti bene e presto.

Anzi, per dire la verità, queste situazioni rientrano pienamente in ciò che la Bibbia chiama “scandali” e, perciò, vanno affrontate e risolte biblicamente.

In Luca, capitolo 17, versetti 1-4, gli scandali fra credenti sono messi direttamente in relazione al rifiuto di perdonare un altro credente. 

Il grande guaio dello scandalo è che non fa male soltanto a chi lo crea, ma alla chiesa e in particolare ai “piccoli”, che potrebbero essere i più giovani nella chiesa, o per età o perché convertiti da poco, oppure i credenti più deboli in senso generale.

Lo “scandalo” (significa letteralmente “trappola”) induce altri a peccare, o scusandosi perché chi è più maturo di loro pecca pure, o perché sono indotti a prendere, poco saggiamente, le parti di uno o dell’altro litigante.

Cosa fare? Anzi tutto, riconoscere che si tratta di uno stato di peccato che avviene all’interno della chiesa e che, perciò, non può essere tollerato, pena la vita spirituale della chiesa e il contagio di questo o di altri peccati fra gli altri membri.

Paolo ha raccomandato a quelli che sono “spirituali”, che camminano, cioè, in comunione col Signore, di cercare di rialzare chi è stato sopraffatto da un peccato, operando con grande umiltà per garantirsi di non rimanere coinvolto e invischiato nel peccato stesso.

Quando, però, ciò non porta alla soluzione del problema o del pentimento di chi pecca e alla sua restaurazione in comunione con l’altro fratello e con la chiesa, bisogna usare dei metodi appropriati, che sono la condanna pubblica del peccato e, se ciò non portasse alla soluzione, alla disciplina di chi vive in questo peccato.

Uno dei problemi che impediscono la soluzione può essere che tutte e due le persone coinvolte possono credere di avere ragione e che il torto sia dell’altra. E qui la chiesa, o chi cerca di favorire una soluzione, può sentirsi forzato a fare da giudice, per condannare il colpevole e assolvere l’innocente.

Anche quando fosse chiaro che uno dei contendenti ha sbagliato più dell’altro, o è più intransigente nel rifiutare la rappacificazione, è molto improbabile che l’altro abbia seguito con cura tutti i passi dettati dalla Bibbia per risolvere i problemi fra fratelli. 

O che non abbia, a sua volta, offeso o interpretato male l’altro e permesso ai suoi sentimenti e emozioni di trascinarlo in peccato. 

Perciò, il problema potrà essere risolto soltanto quando tutte e due le parti riconoscono la propria colpa, o nella situazione che ha dato inizio alla lite o nel suo sviluppo. Poi, quando ciascuno avrà chiesto umilmente perdono, senza avanzare difese, e avrà perdonato di cuore l’altro e con parole appropriate, il problema non dovrà essere solo considerato risolto, ma anche messo da parte per sempre.

Ma, se una delle persone, fosse anche quella che si ritiene la meno colpevole, non partecipasse con completa sincerità a questo processo, rifiutasse di chiedere perdono e di perdonare, la chiesa non avrebbe scelta. Deve avvenire ciò che Gesù ha inteso dicendo: “Sia per te come il pagano e il pubblicano”, cioè non più in comunione con la chiesa.

L’unico scopo della chiesa, nella sua decisione è, ovviamente, la gloria di Dio, la benedizione della chiesa e il ricupero dei fratelli coinvolti.

Hai scritto che tutti hanno paura di procedere alla soluzione del problema, per un motivo o per un altro. Ma, malgrado il fatto che sia difficile affrontarlo con decisione e, se necessario, pubblicamente, i veri risultati negativi del trascurarlo sono molto più seri per la chiesa che non i possibili risultati tristi del confronto diretto.

Sappi che questa tentazione ad accettare il peccato in seno alla chiesa, è una prova comune, e purtroppo diffusa, sofferta da molti altri fratelli. 

Ma Dio è fedele e vi darà una via d’uscita. Forse sarà una via difficile, ma senz’altro benedetta, se seguita in umile e piena sottomissione a Lui.

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La VOCE ottobre 2017

Gente presuntuosa fa venire i nervi. È curioso come un arrogante risulti antipatico a tutti tranne che a se stesso. In banca, al bar, al mercato, in TV ci vuole poco per capire se uno si crede migliore degli altri. Ma Dio resiste agli orgogliosi; resiste a chiunque sia persuaso di essere giusto e disprezzi gli altri. Gesù l’ha illustrato in modo eloquente nella sua parabola del fariseo e del pubblicano, in Luca 18:9-14.

  • Disse ancora questa parabola per certuni che erano persuasi di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima su tutto quello che possiedo”.
    Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me, peccatore!”
    Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s’innalza sarà abbassato, ma chi si abbassa sarà innalzato.

Potrei metterci la mano sul fuoco che, se sei come me, tra i due, pensi di assomigliare al pubblicano. Anzi, me lo auguro. Ma è ora di riconoscere e stanare il fariseo che si nasconde in noi!

Io sono come te

È nella natura umana paragonarsi agli altri. Impariamo a farlo sin da piccoli. Chi è il più bravo? Chi la più bella? Chi ha più successo? Chi ha più amici? Logicamente io! E se così non fosse, per sentirci migliori, con sorprendente disinvoltura tiriamo in ballo tutti i difetti immaginabili dell’altro. Non necessariamente arriviamo a farlo a parole; il più delle volte ci basta averlo pensato.

Sarebbe riduttivo dire che il problema tocchi solo i nostri rapporti con gli altri. In realtà, riguarda principalmente la relazione che abbiamo con Dio.

Nella sua parabola, Gesù sta mettendo in evidenza non le differenze tra i due personaggi, ma il diverso rapporto che i due hanno con l’Iddio santo dell’universo.

Siamo tutti d’accordo che per poter avere un rapporto con Dio bisogna essere come il pubblicano: bisogna riconoscere il nostro peccato e chiedere che Dio, nella sua grazia, ci perdoni e ci offra la perfetta giustificazione in Cristo. Lo dice la Bibbia e ci crediamo. Ma dobbiamo domandarci se questa convinzione si veda anche nella nostra vita quotidiana.

Giorno per giorno le nostre reazioni, gli sguardi e i commenti rivelano quello che effettivamente pensiamo di noi stessi e degli altri. E, di conseguenza, mostrano la vera natura del nostro rapporto con Dio.

Ovviamente il problema è più grave di quanto ci rendiamo conto!

Basti pensare ai commenti che si fanno sugli altri in famiglia, su Facebook o addirittura in chiesa. Non eccedono certo in grazia. Perfino sui blog e nei libri oggi il tono è negativo rasentando a volte la cattiveria.

A Dio non sfuggono questi atteggiamenti sprezzanti e sa bene quello che si annida nei nostri cuori. Gli altri potrebbero anche non accorgersi dei nostri sentimenti, qualcuno potrebbe perfino incoraggiarci nei nostri modi di fare altezzosi, ma Dio ne è profondamente disturbato.

Sai perché? Perché sentendoci superiori, non disprezziamo solo i nostri simili, stiamo anche disprezzando l’opera di Dio nella nostra vita!

Se abbiamo creduto alla verità, se siamo diventati dei figli di Dio, non è per merito nostro. Paolo lo afferma chiaramente: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (Efesini 2:7,8).

Non si è credenti per opere né meriti di alcun tipo. La salvezza è un dono. Non eravamo mica propensi o disposti a credere più di altri!

Infatti Paolo, sotto l’ispirazione di Dio, scrive: “Dio ha vivificato anche voi, voi che eravate morti nelle vostre colpe e nei vostri peccati, ai quali un tempo vi abbandonaste seguendo l’andazzo di questo mondo, seguendo il principe della potenza dell’aria, di quello spirito che opera oggi negli uomini ribelli. Nel numero dei quali anche noi tutti vivevamo un tempo, secondo i desideri della nostra carne, ubbidendo alle voglie della carne e dei nostri pensieri; ed eravamo per natura figli d’ira, come gli altri” (Efesini 2:1-3).

Eravamo proprio come tutti gli altri; avevamo gli stessi desideri, seguivamo la stessa guida (Satana) e vivevamo anche noi per soddisfare i nostri desideri. Eravamo ribelli, incapaci di desiderare e di fare il bene.

Troppo spesso il nostro pio disdegno per i peccati e il cattivo comportamento degli altri cela la triste realtà che non abbiamo capito che essere nati in Italia, nella nostra famiglia o in un Paese dove c’è libertà religiosa, non è mica merito nostro. Essere stati esposti alla Parola di Dio che ci ha condotti alla fede in Cristo, è opera esclusiva di Dio, senza nostro merito.

È un fatto che dovrebbe spingerci a rivedere il modo in cui parliamo della nostra fede agli altri. Il nostro proclamare le verità divine deve scaturire dalla piena consapevolezza della grazia immeritata che ci è stata data.

Ma magari il nostro peccato fosse solo questo!

Purtroppo c’è un altro aspetto nefasto del nostro orgoglio, che però tendiamo a minimizzare. Anzi, per alcuni è proprio un motivo di vanto. È la critica.

Tra credenti in generale, tra le chiese locali e tra le denominazioni evangeliche siamo sempre pronti a criticare.

Adesso mi dirai: “La verità va creduta e difesa e coloro che si sviano dalla verità e abbracciano l’errore vanno smascherati!” Assolutamente!

Ma aspetta… La verità va certamente studiata, accettata e difesa, quindi non è questo il problema.

Il problema è l’atteggiamento con cui lo si fa. Perché proprio come non è merito mio se sono diventato un credente, non è merito mio neppure quello che ho capito della Parola di Dio!

Paolo scriveva ai corinzi: “Ora, fratelli, ho applicato queste cose a me stesso e ad Apollo a causa di voi, perché per nostro mezzo impariate a praticare il non oltre quel che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio esaltando l’uno a danno dell’altro. Infatti, chi ti distingue dagli altri? E che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?” (1 Corinzi 4:6,7).

La chiesa di Corinto, divisa in fazioni, con alcuni che si stimavano più spirituali degli altri, aveva bisogno di sentirlo dire chiaro e tondo. E noi oggi dovremmo dirlo a noi stessi proprio così: Chi ti credi di essere? Quello che hai, quello che sai e quello che hai capito non è mica merito tuo!

Ogni volta che ci atteggiamo come se avessimo dei meriti, stiamo di fatto offuscando l’opera di Dio; forse non ce ne rendiamo conto, ma stiamo usurpando il suo posto. Quando cerchiamo di promuovere il nostro valore personale tra i credenti abbiamo dimenticato che è stato Dio, non noi, a cominciare una buona opera in noi e che è Lui che la porterà a compimento (Filippesi 1:6). L’avviamento di questa buona opera, il suo progresso nel tempo e il suo compimento è, dall’inizio alla fine, opera esclusiva di Dio senza merito nostro.

Tra le chiese, si pecca nel modo in cui vengono espresse le critiche una nei riguardi dell’altra, quando si mira a mettere in risalto la propria superiorità piuttosto che l’opera di Dio. E nascono le contese.

Ma non fraintendermi: non sto dicendo che le differenze dottrinali non abbiano importanza. No, dobbiamo tutti ricercare, difendere e proclamare la sana dottrina. Sto dicendo che dobbiamo fare attenzione a non essere farisei nel farlo. Non dobbiamo arrogarci dei meriti che non sono nostri.

Giacomo ci ricorda qualcosa di importante sulla sapienza: “La saggezza che viene dall’alto anzitutto è pura; poi pacifica, mite, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, senza ipocrisia. Il frutto della giustizia si semina nella pace per coloro che si adoperano per la pace” (Giacomo 3:17,18).

Mi sembra che il modo in cui vengono espresse le critiche – o le differenze – non rispecchi l’atteggiamento che Dio richiede: la convinzione che è solo per merito suo se abbiamo capito e creduto alla verità.

Il disprezzo, la mancanza di perdono, la critica, il troncare i rapporti, l’odio (il non amare è una forma di odio!) e qualunque altro atteggiamento che ci fa sentire superiori agli altri sono le caratteristiche del fariseo nella parabola di Gesù.

Voglio essere come il pubblicano e riconoscere di aver peccato ed essere consapevole della grazia di Dio immeritata. La posta in gioco è il mio rapporto con Dio stesso!

Che sia evidente, quando proclameremo e difenderemo la verità, che non abbiamo merito alcuno. E che possiamo essere sempre pronti a tornare alla Parola di Dio per capirla meglio, per non trovarci a difendere con l’orgoglio le nostre tradizioni o posizioni denominazionali.

Che si dia umilmente ogni merito a Dio per quello che abbiamo capito.

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