La VOCE giugno 2023
Ai tempi del Nuovo Testamento Tessalonica era sotto il controllo dell’Impero romano, ma come città libera godeva di privilegi particolari. Tessalonica è l’odierna Salonicco in Macedonia.
L’apostolo Paolo portò il vangelo in quella regione, motivo per cui fu anche perseguitato. I primi convertiti, quindi, ricevettero il messaggio in mezzo a molte difficoltà, e divennero presto un vero esempio da imitare in tutta la zona circostante.
Un piccolo gruppo che, se ci confrontiamo con le sue caratteristiche, mette in luce la nostra identità di credenti del XXI secolo.
Spicca la prima caratteristica: una reputazione stellare
“Noi ringraziamo sempre Dio per voi tutti, nominandovi nelle nostre preghiere, ricordandoci continuamente, davanti al nostro Dio e Padre, dell’opera della vostra fede, delle fatiche del vostro amore e della costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo” (1 Tessalonicesi 1:2,3).
Dalle parole di Paolo si evince che “l’opera della loro fede”, “le fatiche del loro amore” e “la costanza della speranza nel Signore Gesù Cristo” erano le tre qualità rilevanti dei primi credenti tessalonicesi, che li rendeva visibilmente “cristiani”.
Nonostante Paolo fosse rimasto in quella città solo qualche settimana, la loro vita era radicalmente cambiata dall’incontro con la verità del vangelo.
Da subito la loro fede in Cristo fu vera e operante. In altre parole, conoscere Cristo aveva prodotto un comportamento cambiato nella loro vita.
Uno spunto di riflessione: se qualcuno dovesse descrivere la nostra cristianità di oggi, cosa direbbe? Penserebbe che siamo persone morali? Religiose?
Le opere della fede
“Le opere della loro fede” che Paolo menziona, non servivano per guadagnarsi la salvezza o qualche merito davanti a Dio, perché la salvezza è per grazia e non per opere (Efesini 2:8,9). “Nessuna possibilità di vantarsi” come Paolo aveva insegnato ai credenti di Roma (Romani 3:21-28). In effetti, i tessalonicesi avevano creduto alle parole di Gesù, e perciò si comportavano di conseguenza. La loro fede era un dono di Dio che cresceva in relazione alla loro conoscenza e ubbidienza alla sua parola.
La fede, nella Bibbia, non è descritta come una cosa mistica, ma motore di azioni che vengono da un modo di pensare rinnovato, e i suoi effetti possono essere visti dagli altri.
Diverse volte il Signore Gesù aveva dovuto rimproverare i discepoli per il loro comportamento sbagliato: “Gente di poca fede… Dov’è la vostra fede?... Non avete ancora fede?” Perciò, è la nostra fede a determinare il nostro comportamento.
Giacomo lo spiega così: “Così è della fede; se non ha opere, è per sé stessa morta. Anzi uno piuttosto dirà: «Tu hai la fede, e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le tue opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». Tu credi che c’è un solo Dio, e fai bene; anche i demoni lo credono e tremano” (Giacomo 2:17-19).
Chi dice di credere, ma non è sottomesso a Dio dà piuttosto prova della sua incredulità. Dimostra di essere incosciente e ribelle, ma anche beffardo perché si prende gioco di Dio.
Le fatiche dell’amore
I credenti di Tessalonica, avevano un amore che non si fermava davanti alla fatica e ai tempi difficili che stavano vivendo.
L’espressione “le fatiche del loro amore” descrive un modo di amarsi senza riserve, fino a essere esausti.
Oggi troppi credenti sembrano soffrire della sindrome da stanchezza cronica. Tra la famiglia, il lavoro, lo sport, i corsi e le mete che vogliono raggiungere sono svuotati di tempo e energie, indispensabili per dedicarsi agli altri credenti.
Si sono dimenticati che la vera fede si traduce in amore pratico verso coloro che sono di Cristo.
Le parole di Giovanni sono un campanello d’allarme: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. ... Carissimi, se Dio ci ha tanto amati, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1 Giovanni 4:7-11,19).
I credenti di Tessalonica erano pronti a faticare per amarsi, perché avevano creduto e conosciuto l’amore di Gesù.
Ancora oggi amare gli altri è difficile. Richiede fatica e sacrificio. Eppure, la fama del loro amore si era sparsa in tutta la Macedonia, perché avevano capito che essere cristiani significa amare, e amare ha un costo.
Che i nostri vicini di casa, i colleghi e tutti i nostri conoscenti sappiano che siamo credenti in Cristo, non soltanto perché parliamo di lui, ma soprattutto per le nostre vite piene di amore pratico e infaticabile verso gli altri!
Rincorrere obiettivi terreni ci consumerà senza portare frutto, ma se siamo pronti a dare il nostro tempo e le nostre risorse per il bene dei fratelli in Cristo, quello sì che porterà un frutto per l’eternità.
La costanza della speranza
Infine, i tessalonicesi erano conosciuti per la loro viva attesa del ritorno di Gesù: “la costanza della vostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo”.
La parola “costanza” evidenzia le difficoltà dell’attesa. Pietro ne parla dicendo:
Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere a una speranza viva mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una eredità incorruttibile, senza macchia e inalterabile. Essa è conservata in cielo per voi, che siete custoditi dalla potenza di Dio mediante la fede, per la salvezza che sta per essere rivelata negli ultimi tempi.
Perciò voi esultate anche se ora, per breve tempo, è necessario che siate afflitti da svariate prove, affinché la vostra fede, che viene messa alla prova, che è ben più preziosa dell’oro che perisce, e tuttavia è provato con il fuoco, sia motivo di lode, di gloria e di onore al momento della manifestazione di Gesù Cristo.
Benché non lo abbiate visto, voi lo amate; credendo in lui, benché ora non lo vediate, voi esultate di gioia ineffabile e gloriosa, ottenendo il fine della vostra fede: la salvezza delle anime.
—1 Pietro 1:3-9 (l’enfasi aggiunta, qui e di seguito, è mia).
Non possiamo negare, ignorare o sminuire le difficoltà che Dio permette nella nostra vita, ma dobbiamo affrontarle con pazienza, ricordando le sue promesse. Questo dimostrerà che la nostra fede è vera.
Seconda caratteristica: l’insegnamento sano
Paolo scrive: “Infatti il nostro vangelo non vi è stato annunciato soltanto con parole, ma anche con potenza, con lo Spirito Santo e con piena convinzione; infatti, sapete come ci siamo comportati fra voi, per il vostro bene. Voi siete divenuti imitatori nostri e del Signore, avendo ricevuto la parola in mezzo a molte sofferenze, con la gioia che dà lo Spirito Santo, tanto da diventare un esempio per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Infatti, da voi la parola del Signore ha echeggiato non soltanto nella Macedonia e nell’Acaia, ma anzi la fama della fede che avete in Dio si è sparsa in ogni luogo, di modo che non abbiamo bisogno di parlarne” (1Tessalonicesi 1:5-8).
La verità del vangelo aveva trasformato i tessalonicesi. Era penetrata nei loro cuori cambiando il loro modo di pensare e di comportarsi.
Avevano ascoltato il vangelo predicato con parole giuste, approvate da Dio, con la potenza dello Spirito Santo attraverso uomini che vivevano secondo quello che insegnavano, perché volevano piacere a Dio e non agli uomini (1 Tessalonicesi 2:2-4).
Il predicatore fedele alle Scritture non manipola il messaggio per i propri interessi, ma si assicura di parlare da parte di Dio. Non predica le proprie opinioni, né cerca di far colpo sull’uditorio con discorsi appetibili, ma si attiene all’esposizione del testo biblico. In questo modo lo Spirito Santo opera nelle vite degli uditori, servendosi della verità eterna rivelata nelle Scritture e predicata dal pulpito.
Parlando ai credenti di Corinto, Paolo esprime lo stesso concetto: “Io sono stato presso di voi con debolezza, con timore e con gran tremore; la mia parola e la mia predicazione non consistettero in discorsi persuasivi di sapienza, ma in dimostrazione di Spirito e di potenza, affinché la vostra fede fosse fondata non sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio” (1 Corinzi 2:3-5).
Paolo era coerente con quello che insegnava. Annunciava il vangelo con precisione, e lo Spirito Santo si è servito di questa scrupolosità per trasformare lui per primo, e poi il cuore dei credenti di Tessalonica.
Nonostante le sofferenze a causa delle persecuzioni, i tessalonicesi si erano sottomessi all’insegnamento ricevuto. Infatti Paolo scrive: “Per questa ragione anche noi ringraziamo sempre Dio: perché quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete” (1 Tessalonicesi 2:13).
Il fatto che alcuni credenti non cambino mai e non ci sia una trasformazione visibile della loro vita, sarà forse dovuto anche alla predicazione poco biblica e “annacquata” delle loro chiese? O perché, magari, hanno sottovalutato l’importanza di ascoltare messaggi sani per poter crescere?
Solo la parola di Dio opera efficacemente nei credenti – non è l’intrattenimento né altre attività pseudo spirituali – ed è fondamentale che la mente e il cuore siano esposti a essa. Ignorare il ruolo essenziale dell’insegnamento biblico vanifica lo scopo e la funzione della chiesa.
Terza caratteristica: una conversione reale
Le chiese di oggi sono piene di persone che simpatizzano con vari aspetti del “cristianesimo” senza essersi mai convertite a Gesù. Possono anche essere assidue e partecipare a tante attività, ma non conoscono Cristo personalmente.
Come si fa a riconoscere una vera conversione? Come dovremmo presentare l’evangelo affinché a chi ci ascolta sia chiaro come si diventa cristiani?
Per rispondere, esaminiamo proprio ciò che è successo ai tessalonicesi.
La notizia della loro conversione si era sparsa per tutta la Macedonia e l’Acaia, dice Paolo, e aggiunge: “Essi stessi raccontano quale sia stata la nostra venuta fra voi, e come vi siete convertiti dagl’idoli a Dio per servire il Dio vivente e vero, e per aspettare dai cieli il Figlio suo che egli ha risuscitato dai morti; cioè, Gesù che ci libera dall’ira imminente” (1 Tessalonicesi 1:9,10).
La parola “conversione” descrive un cambiamento radicale a 180 gradi: se prima si andava in una direzione adesso si va nella direzione opposta. È una parola che ricorre spesso nel libro degli Atti, dove si narra come è nata la chiesa, e come delle persone di diverse etnie abbiano abbandonato le false religioni per convertirsi al Dio vero ed eterno.
Non si può diventare cristiani senza una vera conversione che sia accompagnata dal ravvedimento. È ciò che hanno predicato Giovanni Battista, il Signore Gesù e i suoi apostoli. Senza la conversione e senza un ravvedimento il vangelo non è una buona notizia.
Solo un cuore che riconosce le proprie colpe davanti alla giustizia di Dio, e chiede “Cosa devo fare per essere salvato?” è pronto per ricevere la buona notizia della salvezza in Cristo.
I tessalonicesi si erano convertiti dagli idoli a Dio. Avevano riconosciuto l’inutilità e l’inganno della loro religione e si sono rifugiati in Cristo per essere salvati.
Se prima si ritenevano delle brave persone, moralmente buone, ora comprendevano che non esistono opere sufficientemente buone per ottenere il favore di Dio, e che non c’è altro mezzo per arrivare a lui se non attraverso il ravvedimento e la totale resa.
“Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato; infatti con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa confessione per essere salvati. Difatti la Scrittura dice: «Chiunque crede in lui, non sarà deluso»” (Romani 10:9-11).
La conversione autentica è un cambiamento radicale nel modo di ragionare, di credere e di scegliere che influenza tutta la vita. I tessalonicesi erano un esempio anche in questo perché si erano convertiti per servire il Dio vivente e vero.
Nel greco originale “servire” è la forma verbale della parola “schiavo”. Adesso erano legati a un nuovo padrone, un Signore a cui dovevano ubbidienza.
È un concetto che trova tanta resistenza anche tra molti di quelli che si definiscono evangelici. Si preferisce l’idea di aver scelto noi di credere, di aver deciso noi di seguire Cristo, e di servirlo quando ci fa comodo, ma non quella di essere schiavi.
Le Scritture affermano chiaramente che Dio ci ha eletti e ci ha scelti. Ci ha chiamati per appartenere totalmente a lui per obbedirgli in ogni cosa.
Pietro scrive: “Comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno; sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vostro vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia” (1 Pietro 1:17b-19).
E Paolo ammonisce: “Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi. Poiché siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Corinzi 6:19,20).
In realtà non siamo mai stati senza un padrone. Ogni essere umano è schiavo di sé stesso, delle proprie concupiscenze (1 Giovanni 2:16), e di conseguenza schiavo del diavolo (Efesini 2:1-3). Dopo la conversione, però, abbiamo un nuovo padrone: Cristo!
Se sei un credente e ti rendi conto di aver vissuto fino a ora per te stesso, per la tua famiglia, per il lavoro o per le tue mete umane, ravvediti! Riconosci che hai bisogno di sottomettere ogni cosa che riguarda la tua vita alla signoria di Cristo. “Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Giovanni 2:17).
Un’attesa paziente ma sicura
I veri cristiani comprendono che questo mondo non è altro che un passaggio, e che c’è una realtà molto più grande e concreta che ci attende dopo la vita. Per questo hanno priorità, prospettive e mete molto diverse da chi non conosce Cristo.
Un giorno Dio porrà fine alla follia degli uomini e spargerà la sua giusta ira sui peccatori. Quest’ira tocca ogni uomo che non si sottomette alla signoria di Cristo. I tessalonicesi lo avevano saputo da Paolo, e si erano convertiti a Gesù, perciò Paolo gli aveva scritto che “sono liberati dall’ira imminente”.
“Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui” (Giovanni 3:36).
È una tragica realtà che moltissime persone si illudono pensando sinceramente di essere cristiane quando non lo sono affatto. Un giorno alcuni si presenteranno davanti a Dio dicendo di essere “cristiani”, ma la sua risposta sarà categorica: “Io non vi ho mai conosciuti!”
Ognuno di noi deve a se stesso un attento esame, fatto col cuore, alla luce della Parola di Dio, per capire quanto siamo attaccati a Cristo, quanto sia vera la nostra fede, e quanto siamo pronti a ubbidire a Dio.
Poniamoci l’obiettivo di imitare i tessalonicesi, perché Gesù non è alla ricerca di fans, ma di discepoli!
—Davide Standridge
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