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La Voce del Vangelo

La VOCE febbraio 2024

Il nostro modo di pensare ha un’influenza determinante sulla nostra vita. Ciò che crediamo su Dio e sul ruolo di Gesù nelle nostre circostanze incide su come le affrontiamo.

Questo è vero anche per i teologi: lo si evince dai loro scritti e dalle loro affermazioni.

Una cinquantina d’anni fa si parlava molto della Teologia della Liberazione, per la quale Gesù era una figura più politica che spirituale. Veniva presentato come un rivoluzionario che dava un esempio ai “cristiani” su come gestire e reagire a qualsiasi tipo di oppressione. Nell’era moderna molti ancora vedono Gesù in questo modo.

Oggi la teologia della prosperità è quella che attira maggiormente le persone. 

Secondo questo modo di approcciare le Scritture Gesù non solo salva l’uomo spiritualmente, ma ha anche promesso di guarirlo, mentre vive sulla terra, da tutte le malattie e dalle conseguenze del peccato. Gli esponenti di questo pensiero sostengono che Dio non si limita soltanto a provvedere per il credente ciò che gli serve, ma vuole anche che abbia una vita agiata e prospera sotto l’aspetto materiale. 

La teologia della prosperità spesso arricchisce più coloro che la insegnano che coloro che la seguono.

Io la reputo una “teologia della comodità”, un atteggiamento che mira a evitare il più possibile tutto ciò che è scomodo e reca sofferenza. Mettendola così, però, mi pare che rischiamo di cadere un po’ tutti in questo modo di pensare.

Sia come sia, ogni corrente tende a interpretare il rapporto tra Dio e l’uomo dal punto di vista più antropocentrico che teocentrico. 

Qual è allora la verità? Cosa vuole Dio da noi, e cosa dobbiamo aspettarci dal nostro rapporto con lui su questa terra?

 

Sin dall’inizio Dio è stato molto chiaro su quello che si aspetta da noi:

“Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze. 
Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città” (Deuteronomio 6:4-9).

Sono parole reiterate anche dal Signore Gesù nel Nuovo Testamento. 

Dio vuole che il nostro amore per lui sia totale. Questo implica che dobbiamo conoscerlo, non soltanto per apprezzare le sue promesse e quello che ha fatto per noi, ma anche per capire cosa esige da noi, e poi farlo.

Amare Dio vuol dire studiare Gesù cercando, con l’aiuto dello Spirito Santo, di imitarlo.

Vuol dire anche amare la Parola di Dio, ascoltarla e studiarla per capirla, assimilarla, metterla in pratica noi stessi e poi insegnare le sue verità anche agli altri. 

Cominciando da coloro che sono nella nostra sfera d’influenza, fino a raggiungere chiunque il Signore metta sulla nostra strada, soprattutto quelli nella nostra chiesa locale.

Infatti, ogni credente deve rendersi conto del ruolo che Dio gli ha affidato nell’ambito della propria chiesa di appartenenza, per servire gli altri con il dono spirituale che ha ricevuto da lui.

Amare Dio vuol dire inoltre amare i non credenti parlandogli della salvezza in Cristo con zelo e passione.

 

Il grande problema di oggi è che si crede che si possa essere cristiani senza troppi sforzi e senza soffrire. Si sente dire, addirittura, che la sofferenza sia un chiaro segno della disapprovazione di Dio.

Dicono, per esempio, che parlando ai non credenti di Gesù non si deve mai accennare alle possibili ripercussioni negative della conversione sui rapporti familiari, sul lavoro, su quello che si possiede e su tutta la nostra vita perché è una cattiva “strategia di marketing”.

Bisognerebbe piuttosto cercare di mettere in risalto tutti i vantaggi che si hanno nel diventare cristiano, trasmettendo, anche se non intenzionalmente, l’idea che subito dopo la conversione tutto andrà per il meglio, che i rapporti con gli altri, la condizione economica e la salute miglioreranno automaticamente.

Gesù invece aveva affermato che diventare suoi discepoli avrebbe portato tensione e attrito nei rapporti familiari, e che seguirlo è una decisione seria che dev’essere ben ponderata, perché le conseguenze saranno significative. Le persone devono rendersi conto del costo che comporterà seguire Cristo.

“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa per vedere se ha abbastanza per poterla finire? Perché non succeda che, quando ne abbia posto le fondamenta e non la possa finire, tutti quelli che la vedranno comincino a beffarsi di lui, dicendo: «Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto terminare.»
Oppure, qual è il re che, partendo per muovere guerra a un altro re, non si sieda prima a esaminare se con diecimila uomini può affrontare colui che gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata e chiede di trattare la pace.
Così dunque ognuno di voi, che non rinuncia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo. Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda” (Luca 14:26-35).

A quelli che poi sono diventati suoi discepoli Gesù diceva anche:

“Un discepolo non è superiore al maestro, né un servo superiore al suo signore. Basti al discepolo essere come il suo maestro e al servo essere come il suo signore. Se hanno chiamato Belzebù il padrone, quanto più chiameranno così quelli di casa sua! 
Non li temete dunque; perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto. 
Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti. 
E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna. 
Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.
Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10:24-33).

Queste parole di Gesù non erano indirizzate solo ai credenti di quel momento storico particolare, con circostanze sociali del tutto eccezionali, ma sono ancora valide per noi oggi. 

Nel benessere generale dei nostri tempi è facile sottovalutare la possibilità di soffrire. D’altra parte, si sa che in altri paesi non “cristiani” ci sono credenti che soffrono per la loro fede. E non è troppo lontano il tempo in cui gli evangelici erano perseguitati anche in Italia.

La Bibbia dice chiaramente che i veri discepoli devono aspettarsi di soffrire. Ogni cristiano è chiamato a essere pronto a tutto quello che Dio permetterà nella sua vita. 

 

Gesù voleva che i suoi discepoli sapessero che la loro eventuale sofferenza non era il risultato della mancanza di attenzione e cura da parte di Dio, ma che, al contrario, lui è sempre attento ai minimi particolari della vita dei suoi.

Non è saggio pensare che i tempi di oggi siano migliori, e che le parole di Gesù abbiano solo un valore simbolico per prepararci a un ipotetico futuro.

Se Gesù fosse nel mondo adesso avrebbe una vita più facile di quella che ha avuto? Sarebbe celebrato e acclamato come un grande benefattore dell’umanità? Le sue guarigioni, i suoi miracoli lo farebbero un eroe di tutti, e lui sarebbe l’invitato principale di tutti i talk show?

Mentre era sulla terra ha fatto molti miracoli, ha amato come nessuno ha mai amato, ma sono state le sue parole a creare i dissensi con le autorità religiose del suo tempo. Lui non era per niente accomodante, era troppo radicale. 

Cosa direbbe dei capi religiosi dell’era moderna? Cosa direbbe dell’omosessualità, dell’aborto, della convivenza tra persone non sposate? Il suo parlare così estremista del peccato e della necessità del ravvedimento creerebbe problemi a chi lo ascolta?

Sapendo quello che il mondo pensa di chi parla apertamente contro il peccato, ha avvertito i suoi con questo discorso: “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo; siccome non siete del mondo, ma io ho scelto voi in mezzo al mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detta: «Il servo non è più grande del suo signore.» Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo ve lo faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato” (Giovanni 15:18-21).

 

Il Signore è stato molto chiaro: se affermiamo quello che lui ha affermato il mondo ci odierà, e di conseguenza saremo perseguitati.

Come stanno le cose per noi oggi? Siamo odiati? Siamo perseguitati? 

Se non lo siamo, è perché siamo in qualche modo l’eccezione alla regola? 

Come interpretiamo la vita quando non arrivano difficoltà? Crediamo che Dio ci stia particolarmente benedicendo?

Alcuni credenti scambiano le normali difficoltà della vita con le sofferenze e la persecuzione di cui parlava Gesù in questi passi. Ma non sono la stessa cosa.

Tutti gli uomini soffrono, chi per malattia, chi per le conseguenze del peccato proprio o di quello di qualcun altro, e chi per altri motivi – il mondo è pieno di dolore. La Bibbia ne parla, e Dio vuole insegnarci come affrontare la sofferenza. 

Ma la sofferenza di cui stiamo parlando non è quella che prima o poi tutti viviamo, perché conseguenza di un mondo decaduto. È piuttosto il risultato di una vita vissuta alla gloria di Dio.

Paolo scrivendo a Timoteo dice: “Tu invece hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza, le mie persecuzioni, le mie sofferenze, quello che mi accadde ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportate; e il Signore mi ha liberato da tutte. Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Timoteo 3:10-13).

L’intento di Paolo era quello di incitare Timoteo a essere coraggioso nel suo ministero, ma conclude con parole inequivocabili: tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati.

È questa la mia realtà? 
Sto vivendo la mia vita di discepolo in modo palese a tutti e con totale sottomissione a Dio? 
Sto cercando di evitare le sofferenze, anche le più piccole, con un comportamento ambiguo? 
Sono poco chiaro nel parlare della mia fede perché non voglio soffrire?

A volte, anche tra credenti si parla poco di quello che Dio insegna perché non si vuole offendere nessuno. Preferiamo stare zitti e non denunciare né rimproverare un certo peccato. Scegliamo di non esprimerci su alcuni argomenti per “non chiudere le porte della testimonianza”. Tacciamo per non rovinare i rapporti con parenti e amici.

Certo, essere espliciti non è una licenza per essere sgarbati e odiosi, trasgredendo altri comandamenti di Dio.

Con questo non voglio giudicare nessuno, ma spingere ognuno di noi a riflettere sulla propria vita. È possibile che dietro al nostro poco coraggio di mostrare la nostra fede e di parlare agli altri di Gesù si nasconda la volontà di non avere problemi, non soffrire, non essere perseguitati?

Non siamo tanto diversi dai credenti del primo secolo; abbiamo i loro stessi timori. Paolo scrive ai Filippesi: “Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo” (Filippesi 1:27-30).

I credenti di Filippi avevano paura. Erano spaventati dagli oppositori del vangelo. Ma queste emozioni (normali) non dovevano essere un freno per una vita degna dell’evangelo di Cristo! 

Al contrario, loro dovevano farsi riconoscere come cristiani, ed essere coraggiosi e chiari nel parlare del vangelo. 

Dio vuole che i credenti sappiano che un discepolo di Gesù non ha solo il beneficio della grazia, cioè della salvezza, ma anche la grazia di soffrire proprio a causa della sua testimonianza personale.

Come abbiamo visto, studiando nei mesi precedenti l’armatura di Dio, la vita cristiana è caratterizzata dalla lotta non soltanto contro la carne, il diavolo e i suoi emissari, ma anche contro tutti coloro che non sono figli di Dio.

È da notare che Paolo scrive che i credenti devono combattere insieme. Le chiese locali dovrebbero essere un posto dove si viene istruiti su come parlare con coraggio, chiarezza e amore della propria fede, ma anche un luogo dove i fratelli pregano l’uno per l’altro e si incoraggiano a vicenda.

Attenzione a non prendere i periodi di tranquillità come segni della benedizione e approvazione di Dio! 

Pietro scriveva ai cristiani che stavano soffrendo a causa della loro fede: “Carissimi, non vi stupite per l’incendio che divampa in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Anzi, rallegratevi in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, perché anche al momento della rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.

“Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida, o ladro, o malfattore, o perché si immischia nei fatti altrui; ma se uno soffre come cristiano non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome.
Infatti è giunto il tempo in cui il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio; e se comincia prima da noi, quale sarà la fine di quelli che non ubbidiscono al vangelo di Dio? E se il giusto è salvato a stento, dove finiranno l’empio e il peccatore? Perciò anche quelli che soffrono secondo la volontà di Dio affidino le anime loro al fedele Creatore, facendo il bene” (1 Pietro 4:12-14).

È possibile che i credenti debbano rivalutare come stanno vivendo la loro fede sia come individui che come assemblea? Che debbano fare un esame del loro modo di evangelizzare? O delle scelte che fanno ogni giorno? Che debbano verificare quale teologia hanno abbracciato? Che debbano rivalutare quale chiesa stanno frequentando, magari per comodità invece che per l’insegnamento biblico?

Il fatto che ci siano delle chiese che incoraggiano il credente a evitare la sofferenza non ci dovrebbe sorprendere. 

Paolo infatti scrive: “Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole” (2 Timoteo 4:3,4).

Queste chiese non devono dimenticare quello che è scritto nella Parola di Dio.

Gesù ha avvertito: “Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda.”

Esiste la possibilità che i credenti e pure la chiesa siano diventati insipidi?

La teologia della “comodità” Gesù non l’ha mai insegnata, e non dobbiamo abbracciarla neanche noi, perché sarebbe un inganno molto pericoloso!

Davide Standridge

 

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La VOCE novembre 2019

Tu, che ne sai?

Anni fa, una giovane donna che conoscevo era rimasta vedova quando suo marito poliziotto era stato ucciso da un malvivente. Avevo conosciuto anche il marito e così mi sono trovato a dover incoraggiare la vedova e accompagnarla in questo tragico evento. 

Lei era rimasta sola con i figli ancora piccoli, che non riuscivano a capacitarsi del perché papà non sarebbe tornato più a casa.

Uno dei bambini aveva appena quattro anni e, sebbene non sembrasse aver afferrato tutta la gravità della situazione, capiva abbastanza da esserne turbato. Aveva assunto un comportamento scontroso, fuori ogni controllo. Era sempre arrabbiato, si rifiutava di andare a dormire, alzava la voce per qualunque motivo e rompeva i giocattoli senza nemmeno sapere il perché. 

La sorella, solo qualche anno più grande di lui, era frastornata da tutto quello che stava succedendo intorno a lei.

La madre, naturalmente affranta dal dolore e confusa su come andare avanti, era totalmente impreparata per una tragedia di tale portata. La vedevo che cercava di proteggersi come meglio poteva da chi le proponeva soluzioni di ogni tipo per gestire il suo dolore, e forse qualcuno cercava anche di approfittarsi di lei.

Era convinta che nessuno la capisse. Nessuno tra i suoi conoscenti aveva mai vissuto una prova simile, come potevano allora anche minimamente immedesimarsi?

Non era l’unica a pensarla così.

Infatti, nelle nostre tragedie personali, è praticamente impossibile che qualcuno stia vivendo esattamente la nostra identica esperienza.

Chi, allora, potrebbe capirci, abbandonati come siamo a noi stessi, in balia delle circostanze? Potremmo mai contare sulla comprensione di qualcuno?

Quello che ti propongo non è un banale prontuario del tipo “10 passi verso la serenità”. 

È decisamente molto di più!

Egli ci conosce, Egli si ricorda

Prima di tutto bisogna ammettere che affrontare situazioni pesanti e complicate non è mai facile. Non voglio affatto sminuirne la sofferenza o i sentimenti che ne conseguono. Nel mondo accadono catastrofi che ci lasciano tutti allibiti e senza parole: terremoti, guerre, malattie ed efferatezze di ogni tipo.

A casa nostra, a cena, mia moglie e io preghiamo per persone che conosciamo che soffrono per malattie difficili. Abbiamo una serie di nomi a cui ogni tanto ne aggiungiamo qualcuno nuovo, purtroppo. La lista si fa sempre più lunga mentre veniamo a conoscenza di altre persone che devono affrontare, non solo infermità ma anche altre situazioni spesso umanamente senza speranza.

Per molti la domanda che viene naturale è: “Ma Dio, dov’è?”

La gente si ricorda di Lui quando ormai ogni altra soluzione si è dimostrata inefficace. Negli anni ho visto tornare a frequentare la chiesa persone che avevano un caro molto grave, per poi sparire di nuovo non appena la situazione si era risolta, in bene o in male.

Dio diventa rilevante solo quando si ha bisogno del suo intervento, oppure quando si pensa di avere il diritto di fargli delle rimostranze.

Hai avuto anche tu questi pensieri? Ti sei mai trovato a dubitare che a Dio non importi minimamente di quello che stai vivendo? Che abbia veramente compassione? O che capisca davvero quello che TU stai passando?

“Compassione” viene dal latino “patire insieme”. È definita come “un sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; una partecipazione alle sofferenze altrui”.

Che Dio sia compassionevole non vuol dire che provi sentimenti di pietà per qualcuno di tanto in tanto, come facciamo forse noi.

Essere compassionevole fa parte del suo carattere. La compassione è un suo attributo eterno, immutabile. 

“Ma tu, Signore, sei un Dio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande in bontà e in verità” (Salmo 86:15).

Dio non deve sforzarsi di avere compassione, come poteva essere per me con la giovane vedova – Egli è compassionevole! La sua compassione è perfetta, sempre pronta. Non servono le nostre lacrime per stimolare la sua tenerezza verso noi.

Ti ricordi quando Mosè stava scendendo dal monte Sinai dopo che aveva ricevuto le tavole della legge? Il racconto si trova in Esodo capitolo 32. Mentre lui era rimasto alla presenza di Dio per quaranta giorni, il popolo d’Israele, giù nella vallata, si era ben presto corrotto e sviato dagli ordini di Dio, si era fatto fare un vitello d’oro da adorare, e si era dato a festeggiamenti proibiti. 

Immagino la scena: Mosè che, scendendo piano quel ripido pendio della montagna, fa molta attenzione alle tavole della legge che Dio stesso aveva inciso. Ma quando scopre che il popolo d’Israele sta peccando contro Dio, si adira talmente tanto che getta contro le rocce quelle tavole sacre. 

Se Mosè aveva vissuto l’affronto del popolo contro Dio con tanta ira, cosa avremmo potuto aspettarci da Dio? Era Lui la parte offesa dal comportamento del popolo.

Più avanti, nel capito 34 del libro di Esodo, leggiamo che Dio diede a Mosè due nuove tavole della legge, e disse di se stesso così: “Il Signore! il Signore! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà, che conserva la sua bontà fino alla millesima generazione, che perdona l’iniquità, la trasgressione e il peccato ma non terrà il colpevole per innocente; che punisce l’iniquità dei padri sopra i figli e sopra i figli dei figli, fino alla terza e alla quarta generazione!”

Hai notato come si descrive? Dio conserva la sua bontà fino alla millesima generazione! La sua compassione si estende a persone che non la meritano affatto!

Se ti sei chiesto anche tu se Dio ti capisca davvero, considera che Egli è Dio ma noi siamo umani. Lui è così diverso da noi.

Le parole del Salmo 103 chiariscono ancora meglio che “Come un padre è pietoso verso i suoi figli, così è pietoso il SIGNORE verso quelli che lo temono. Poiché egli conosce la nostra natura; egli si ricorda che siamo polvere” (v. 13,14).

Dio, che ci ha creati, sa esattamente come siamo fatti. Conosce la fragilità umana! 

Forse gli altri non riusciranno a capirmi, a compatirmi, ma Dio è la sorgente della compassione vera, compassione informata sulla natura umana, sulla nostra condizione di peccatori, sulla nostra fragilità. 

Sa tutto di tutti, eppure sceglie di mostrare compassione verso coloro che lo temono, coloro che lo riconoscono come loro Dio. 

Sei un figlio di Dio? Egli ha compassione di te! Non perdere mai di vista questa importante verità. 

Visione limitata

Il problema è che in qualunque circostanza ci troviamo vediamo solo il presente, e al massimo possiamo temere il futuro. 

Dio però non è limitato come noi. 

Egli infatti, non solo conosce il futuro in ogni suo dettaglio, ma lo governa con attenta precisione.

La dimostrazione per eccellenza della compassione di Dio è che ha mandato il suo unigenito Figlio a morire per coloro che credono in Lui. 

L’incarnazione di Gesù e la sua morte sulla croce non sono state una reazione di Dio ai mali del mondo che lo hanno colto di sorpresa. Assolutamente no. Erano state pianificate da Dio prima della fondazione dell’universo. 

Isaia profetizzando di Gesù aveva scritto: “Lo Spirito del Signore, di DIO, è su di me, perché il SIGNORE mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia del SIGNORE, il giorno di vendetta del nostro Dio; per consolare tutti quelli che sono afflitti” (61:1-3).

Il Signore Gesù, mentre era sulla terra mostrò immensa compassione verso i malati, le vedove e i parenti dei malati guarendoli e facendo loro del bene. Ma, sorprendentemente, più di ogni altro, mostrò genuina compassione per coloro che non erano spiritualmente suoi figlioli. Vedere uomini e donne smarriti come pecore procurava in Lui grande dispiacere.

Oggi, in chiesa, è penoso vedere persone che si considerano figli di Dio, che hanno cioè ricevuto il dono più grande della compassione di Dio avendo creduto in Cristo, ma che vivono come se a nessuno importasse di loro.

Come mai ci sono molti credenti che sono costantemente scontenti e senza la gioia del Signore?

La risposta è semplice purtroppo: è che non si fidano di Dio! Sembrano delle parole forti, ma pensiamoci un momento. 

L’autore della lettera agli Ebrei scrive: “Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, stiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:14-16). 

Se è vero che Dio è compassionevole e ci comprende come dice questo passo, allora il nostro problema è che non ci fidiamo veramente di Lui.

Ma c’è anche da considerare un secondo aspetto. Nella società moderna dove a ogni esigenza esiste una soluzione istantanea, non abbiamo né la voglia né il tempo di aspettare il “momento opportuno”.  Il momento giusto dev’essere subito e forse anche subito è troppo lento ad arrivare! 

Siamo abituati a considerare ogni problema e circostanza negativa come qualcosa da evitare a tutti i costi! Dio invece ha scopi diversi dai nostri; Egli non è interessato necessariamente alla nostra comodità, ma alla nostra trasformazione: vuole renderci più simili a Cristo. 

È quello che la Bibbia chiama la santificazione dei credenti. 

Comincia al momento della nuova nascita per opera dello Spirito Santo, quando Dio ti separa dal mondo e cambia il tuo destino eterno. Ma è un progresso che dura tutta la vita mentre Dio, servendosi anche delle cose negative che accadono per sua concessione, trasforma il tuo essere nell’immagine di suo Figlio.

Un terzo motivo, collegato strettamente al precedente, è che pensiamo di sapere meglio di Dio cosa sia e in cosa debba consistere la compassione che ci aspettiamo da Lui. Pretendiamo quella, solo quella, perché qualsiasi altro modo in cui la mostri, per noi non è affatto compassione. Ma indovina un po’ chi ha ragione!

Tre risposte vere

Stai affrontando una situazione difficile? Sei scoraggiato perché Dio non sembra rispondere alle tue preghiere? Forse hai bisogno di rivalutare la tua fiducia in Lui. Forse hai bisogno di rivedere cosa sia e da chi proviene la vera compassione.

Tutti vorremmo capire il perché delle situazioni difficili che ci affliggono. Spesso reclamiamo una risposta eclatante, ma Dio ci ha già risposto nelle Scritture. Ci sono almeno tre risposte che sono sempre vere.

Abbiamo bisogno di essere trasformati. È qualcosa che Dio solo può fare. Servendosi di svariate situazioni ci fa maturare nella fede e nell’ubbidienza. 

“Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate, sapendo che la prova della vostra fede produce costanza. E la costanza compia pienamente l’opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti” (Giacomo 1:2-4).

Abbiamo bisogno di smettere di vivere per le cose del mondo, con le sue attrazioni vuote, passeggere e ingannevoli. “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra” (Colossesi 3:1,2).

Abbiamo bisogno di imparare ad essere di aiuto, e a consolare gli altri. 

“Benedetto sia il Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo, il Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione; perché, come abbondano in noi le sofferenze di Cristo, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2 Corinzi 1:3,4).

Ci saranno anche altre risposte che troverai nelle Scritture che ti aiuteranno a riscoprire la compassione di Dio nella tua vita, ma non contraddiranno mai queste tre verità bibliche. 

Un’ultima considerazione

Ma se abbiamo peccato? È possibile che stiamo soffrendo perché Dio ci sta disciplinando per qualcosa che abbiamo fatto?

È certamente una possibilità su cui bisogna riflettere umilmente e con onestà. Infatti nella lettera agli Ebrei è scritto ancora: “e avete dimenticato l’esortazione rivolta a voi come a figli: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del Signore, e non ti perdere d’animo quando sei da lui ripreso; perché il Signore corregge quelli che egli ama, e punisce tutti coloro che riconosce come figli»” (12:5,6).

La riprensione di Dio nella nostra vita ha lo scopo di riportarci a Lui. Nel momento che lo facciamo confessandogli i nostri peccati, la disciplina ha raggiunto il suo scopo, e finisce lì. Questo però non vuol dire automaticamente che non ci siano ripercussioni, anche dolorose, del nostro peccato sulla nostra vita. Talvolta le conseguenze di una ribellione possono durare finché vivremo.

Quando questo accade, potrebbe anche essere che, per il nostro buonismo, vogliamo mostrarci più misericordiosi di Dio. 

Cercare di ignorare, mitigare o negare le conseguenze del peccato non è necessariamente la cosa migliore per le persone coinvolte. È possibile che Dio si stia servendo di queste ripercussioni per produrre un ravvedimento genuino in chi ha peccato, e stia ancora lavorando in lui affinché si renda conto della gravità della sua disubbidienza.

Allo stesso tempo, non siamo noi che dobbiamo essere gli strumenti del giudizio di Dio rifiutando il nostro perdono a chi si ravvede. 

Gloria a Dio per la sua misericordia! Ne abbiamo tanto bisogno, non solo per noi stessi, ma per imparare a pregare per gli altri ed essere portatori di compassione. 

Infatti, Gesù, “vedendo le folle, ne ebbe compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La mèsse è grande, ma pochi sono gli operai. Pregate dunque il Signore della mèsse che mandi degli operai nella sua mèsse»” (Matteo 9:36-38). 

Noi siamo gli ambasciatori della compassione di Dio a un mondo che ha bisogno di conoscerla.

“Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza. Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi” (Colossesi 3:12,13).

Il mondo è pieno di persone che inaspettatamente si trovano a dover gestire eventi troppo devastanti per loro, come la giovane vedova e i suoi figli troppo piccoli per essere in grado di esprimere con una parola lo strazio dei loro cuori.

Che il Signore ci aiuti a non considerare loro come ostacoli alla nostra serenità, ma a cogliere queste opportunità per dichiarargli la compassione di Dio.  

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