La VOCE febbraio 2024
Il nostro modo di pensare ha un’influenza determinante sulla nostra vita. Ciò che crediamo su Dio e sul ruolo di Gesù nelle nostre circostanze incide su come le affrontiamo.
Questo è vero anche per i teologi: lo si evince dai loro scritti e dalle loro affermazioni.
Una cinquantina d’anni fa si parlava molto della Teologia della Liberazione, per la quale Gesù era una figura più politica che spirituale. Veniva presentato come un rivoluzionario che dava un esempio ai “cristiani” su come gestire e reagire a qualsiasi tipo di oppressione. Nell’era moderna molti ancora vedono Gesù in questo modo.
Oggi la teologia della prosperità è quella che attira maggiormente le persone.
Secondo questo modo di approcciare le Scritture Gesù non solo salva l’uomo spiritualmente, ma ha anche promesso di guarirlo, mentre vive sulla terra, da tutte le malattie e dalle conseguenze del peccato. Gli esponenti di questo pensiero sostengono che Dio non si limita soltanto a provvedere per il credente ciò che gli serve, ma vuole anche che abbia una vita agiata e prospera sotto l’aspetto materiale.
La teologia della prosperità spesso arricchisce più coloro che la insegnano che coloro che la seguono.
Io la reputo una “teologia della comodità”, un atteggiamento che mira a evitare il più possibile tutto ciò che è scomodo e reca sofferenza. Mettendola così, però, mi pare che rischiamo di cadere un po’ tutti in questo modo di pensare.
Sia come sia, ogni corrente tende a interpretare il rapporto tra Dio e l’uomo dal punto di vista più antropocentrico che teocentrico.
Qual è allora la verità? Cosa vuole Dio da noi, e cosa dobbiamo aspettarci dal nostro rapporto con lui su questa terra?
Sin dall’inizio Dio è stato molto chiaro su quello che si aspetta da noi:
“Ascolta, Israele: Il SIGNORE, il nostro Dio, è l’unico SIGNORE. Tu amerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima tua e con tutte le tue forze.
Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno nel cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte in mezzo agli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte della tua città” (Deuteronomio 6:4-9).
Sono parole reiterate anche dal Signore Gesù nel Nuovo Testamento.
Dio vuole che il nostro amore per lui sia totale. Questo implica che dobbiamo conoscerlo, non soltanto per apprezzare le sue promesse e quello che ha fatto per noi, ma anche per capire cosa esige da noi, e poi farlo.
Amare Dio vuol dire studiare Gesù cercando, con l’aiuto dello Spirito Santo, di imitarlo.
Vuol dire anche amare la Parola di Dio, ascoltarla e studiarla per capirla, assimilarla, metterla in pratica noi stessi e poi insegnare le sue verità anche agli altri.
Cominciando da coloro che sono nella nostra sfera d’influenza, fino a raggiungere chiunque il Signore metta sulla nostra strada, soprattutto quelli nella nostra chiesa locale.
Infatti, ogni credente deve rendersi conto del ruolo che Dio gli ha affidato nell’ambito della propria chiesa di appartenenza, per servire gli altri con il dono spirituale che ha ricevuto da lui.
Amare Dio vuol dire inoltre amare i non credenti parlandogli della salvezza in Cristo con zelo e passione.
Il grande problema di oggi è che si crede che si possa essere cristiani senza troppi sforzi e senza soffrire. Si sente dire, addirittura, che la sofferenza sia un chiaro segno della disapprovazione di Dio.
Dicono, per esempio, che parlando ai non credenti di Gesù non si deve mai accennare alle possibili ripercussioni negative della conversione sui rapporti familiari, sul lavoro, su quello che si possiede e su tutta la nostra vita perché è una cattiva “strategia di marketing”.
Bisognerebbe piuttosto cercare di mettere in risalto tutti i vantaggi che si hanno nel diventare cristiano, trasmettendo, anche se non intenzionalmente, l’idea che subito dopo la conversione tutto andrà per il meglio, che i rapporti con gli altri, la condizione economica e la salute miglioreranno automaticamente.
Gesù invece aveva affermato che diventare suoi discepoli avrebbe portato tensione e attrito nei rapporti familiari, e che seguirlo è una decisione seria che dev’essere ben ponderata, perché le conseguenze saranno significative. Le persone devono rendersi conto del costo che comporterà seguire Cristo.
“Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolare la spesa per vedere se ha abbastanza per poterla finire? Perché non succeda che, quando ne abbia posto le fondamenta e non la possa finire, tutti quelli che la vedranno comincino a beffarsi di lui, dicendo: «Quest’uomo ha cominciato a costruire e non ha potuto terminare.»
Oppure, qual è il re che, partendo per muovere guerra a un altro re, non si sieda prima a esaminare se con diecimila uomini può affrontare colui che gli viene contro con ventimila? Se no, mentre quello è ancora lontano, gli manda un’ambasciata e chiede di trattare la pace.
Così dunque ognuno di voi, che non rinuncia a tutto quello che ha, non può essere mio discepolo. Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda” (Luca 14:26-35).
A quelli che poi sono diventati suoi discepoli Gesù diceva anche:
“Un discepolo non è superiore al maestro, né un servo superiore al suo signore. Basti al discepolo essere come il suo maestro e al servo essere come il suo signore. Se hanno chiamato Belzebù il padrone, quanto più chiameranno così quelli di casa sua!
Non li temete dunque; perché non c’è niente di nascosto che non debba essere scoperto, né di occulto che non debba essere conosciuto.
Quello che io vi dico nelle tenebre, ditelo nella luce; e quello che udite dettovi all’orecchio, predicatelo sui tetti.
E non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; temete piuttosto colui che può far perire l’anima e il corpo nella geenna.
Due passeri non si vendono per un soldo? Eppure non ne cade uno solo in terra senza il volere del Padre vostro. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non temete dunque; voi valete più di molti passeri.
Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io riconoscerò lui davanti al Padre mio che è nei cieli. Ma chiunque mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io rinnegherò lui davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10:24-33).
Queste parole di Gesù non erano indirizzate solo ai credenti di quel momento storico particolare, con circostanze sociali del tutto eccezionali, ma sono ancora valide per noi oggi.
Nel benessere generale dei nostri tempi è facile sottovalutare la possibilità di soffrire. D’altra parte, si sa che in altri paesi non “cristiani” ci sono credenti che soffrono per la loro fede. E non è troppo lontano il tempo in cui gli evangelici erano perseguitati anche in Italia.
La Bibbia dice chiaramente che i veri discepoli devono aspettarsi di soffrire. Ogni cristiano è chiamato a essere pronto a tutto quello che Dio permetterà nella sua vita.
Gesù voleva che i suoi discepoli sapessero che la loro eventuale sofferenza non era il risultato della mancanza di attenzione e cura da parte di Dio, ma che, al contrario, lui è sempre attento ai minimi particolari della vita dei suoi.
Non è saggio pensare che i tempi di oggi siano migliori, e che le parole di Gesù abbiano solo un valore simbolico per prepararci a un ipotetico futuro.
Se Gesù fosse nel mondo adesso avrebbe una vita più facile di quella che ha avuto? Sarebbe celebrato e acclamato come un grande benefattore dell’umanità? Le sue guarigioni, i suoi miracoli lo farebbero un eroe di tutti, e lui sarebbe l’invitato principale di tutti i talk show?
Mentre era sulla terra ha fatto molti miracoli, ha amato come nessuno ha mai amato, ma sono state le sue parole a creare i dissensi con le autorità religiose del suo tempo. Lui non era per niente accomodante, era troppo radicale.
Cosa direbbe dei capi religiosi dell’era moderna? Cosa direbbe dell’omosessualità, dell’aborto, della convivenza tra persone non sposate? Il suo parlare così estremista del peccato e della necessità del ravvedimento creerebbe problemi a chi lo ascolta?
Sapendo quello che il mondo pensa di chi parla apertamente contro il peccato, ha avvertito i suoi con questo discorso: “Se il mondo vi odia, sapete bene che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo; siccome non siete del mondo, ma io ho scelto voi in mezzo al mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detta: «Il servo non è più grande del suo signore.» Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma tutto questo ve lo faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato” (Giovanni 15:18-21).
Il Signore è stato molto chiaro: se affermiamo quello che lui ha affermato il mondo ci odierà, e di conseguenza saremo perseguitati.
Come stanno le cose per noi oggi? Siamo odiati? Siamo perseguitati?
Se non lo siamo, è perché siamo in qualche modo l’eccezione alla regola?
Come interpretiamo la vita quando non arrivano difficoltà? Crediamo che Dio ci stia particolarmente benedicendo?
Alcuni credenti scambiano le normali difficoltà della vita con le sofferenze e la persecuzione di cui parlava Gesù in questi passi. Ma non sono la stessa cosa.
Tutti gli uomini soffrono, chi per malattia, chi per le conseguenze del peccato proprio o di quello di qualcun altro, e chi per altri motivi – il mondo è pieno di dolore. La Bibbia ne parla, e Dio vuole insegnarci come affrontare la sofferenza.
Ma la sofferenza di cui stiamo parlando non è quella che prima o poi tutti viviamo, perché conseguenza di un mondo decaduto. È piuttosto il risultato di una vita vissuta alla gloria di Dio.
Paolo scrivendo a Timoteo dice: “Tu invece hai seguito da vicino il mio insegnamento, la mia condotta, i miei propositi, la mia fede, la mia pazienza, il mio amore, la mia costanza, le mie persecuzioni, le mie sofferenze, quello che mi accadde ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportate; e il Signore mi ha liberato da tutte. Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Timoteo 3:10-13).
L’intento di Paolo era quello di incitare Timoteo a essere coraggioso nel suo ministero, ma conclude con parole inequivocabili: tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati.
È questa la mia realtà?
Sto vivendo la mia vita di discepolo in modo palese a tutti e con totale sottomissione a Dio?
Sto cercando di evitare le sofferenze, anche le più piccole, con un comportamento ambiguo?
Sono poco chiaro nel parlare della mia fede perché non voglio soffrire?
A volte, anche tra credenti si parla poco di quello che Dio insegna perché non si vuole offendere nessuno. Preferiamo stare zitti e non denunciare né rimproverare un certo peccato. Scegliamo di non esprimerci su alcuni argomenti per “non chiudere le porte della testimonianza”. Tacciamo per non rovinare i rapporti con parenti e amici.
Certo, essere espliciti non è una licenza per essere sgarbati e odiosi, trasgredendo altri comandamenti di Dio.
Con questo non voglio giudicare nessuno, ma spingere ognuno di noi a riflettere sulla propria vita. È possibile che dietro al nostro poco coraggio di mostrare la nostra fede e di parlare agli altri di Gesù si nasconda la volontà di non avere problemi, non soffrire, non essere perseguitati?
Non siamo tanto diversi dai credenti del primo secolo; abbiamo i loro stessi timori. Paolo scrive ai Filippesi: “Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo” (Filippesi 1:27-30).
I credenti di Filippi avevano paura. Erano spaventati dagli oppositori del vangelo. Ma queste emozioni (normali) non dovevano essere un freno per una vita degna dell’evangelo di Cristo!
Al contrario, loro dovevano farsi riconoscere come cristiani, ed essere coraggiosi e chiari nel parlare del vangelo.
Dio vuole che i credenti sappiano che un discepolo di Gesù non ha solo il beneficio della grazia, cioè della salvezza, ma anche la grazia di soffrire proprio a causa della sua testimonianza personale.
Come abbiamo visto, studiando nei mesi precedenti l’armatura di Dio, la vita cristiana è caratterizzata dalla lotta non soltanto contro la carne, il diavolo e i suoi emissari, ma anche contro tutti coloro che non sono figli di Dio.
È da notare che Paolo scrive che i credenti devono combattere insieme. Le chiese locali dovrebbero essere un posto dove si viene istruiti su come parlare con coraggio, chiarezza e amore della propria fede, ma anche un luogo dove i fratelli pregano l’uno per l’altro e si incoraggiano a vicenda.
Attenzione a non prendere i periodi di tranquillità come segni della benedizione e approvazione di Dio!
Pietro scriveva ai cristiani che stavano soffrendo a causa della loro fede: “Carissimi, non vi stupite per l’incendio che divampa in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Anzi, rallegratevi in quanto partecipate alle sofferenze di Cristo, perché anche al momento della rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare.
“Se siete insultati per il nome di Cristo, beati voi! Perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida, o ladro, o malfattore, o perché si immischia nei fatti altrui; ma se uno soffre come cristiano non se ne vergogni, anzi glorifichi Dio, portando questo nome.
Infatti è giunto il tempo in cui il giudizio deve cominciare dalla casa di Dio; e se comincia prima da noi, quale sarà la fine di quelli che non ubbidiscono al vangelo di Dio? E se il giusto è salvato a stento, dove finiranno l’empio e il peccatore? Perciò anche quelli che soffrono secondo la volontà di Dio affidino le anime loro al fedele Creatore, facendo il bene” (1 Pietro 4:12-14).
È possibile che i credenti debbano rivalutare come stanno vivendo la loro fede sia come individui che come assemblea? Che debbano fare un esame del loro modo di evangelizzare? O delle scelte che fanno ogni giorno? Che debbano verificare quale teologia hanno abbracciato? Che debbano rivalutare quale chiesa stanno frequentando, magari per comodità invece che per l’insegnamento biblico?
Il fatto che ci siano delle chiese che incoraggiano il credente a evitare la sofferenza non ci dovrebbe sorprendere.
Paolo infatti scrive: “Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole” (2 Timoteo 4:3,4).
Queste chiese non devono dimenticare quello che è scritto nella Parola di Dio.
Gesù ha avvertito: “Il sale, certo, è buono; ma se anche il sale diventa insipido, con che cosa gli si darà sapore? Non serve né per il terreno, né per il concime; lo si butta via. Chi ha orecchi per udire oda.”
Esiste la possibilità che i credenti e pure la chiesa siano diventati insipidi?
La teologia della “comodità” Gesù non l’ha mai insegnata, e non dobbiamo abbracciarla neanche noi, perché sarebbe un inganno molto pericoloso!
—Davide Standridge
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